Diverse circostanze han fatto sì che, con l’avvicendarsi dei settennati, ai presidenti della Repubblica andassero sempre più stretti gli argini che imponevano loro di limitarsi all’esercizio di una funzione puramente simbolica. Margini imposti, più che altro, dalla prassi e che, pur nel rispetto della Costituzione, sono stati, con Napolitano, definitivamente travalicati. Il presidente più interventista della storia, che si è servito dei cosiddetti poteri residui del re: un’ipotesi prevista dalla Carta, al di là del giudizio che chiunque può formarsi sul suo operato concreto. Sta di fatto che, con le prossime elezioni, difficilmente si tornerà indietro. Tanto più che quel contesto di estrema frammentazione e incertezza che aveva quasi obbligato il capo dello Stato a supplire a un vuoto politico potrebbe facilmente ripresentarsi. Per questo è importante capire chi potrebbe essere il prossimo inquilino del Colle. Lo abbiamo chiesto a Fabrizio D’Esposito, firma politica de Il Fatto quotidiano.



Dicono che, in via del tutto eccezionale, potrebbe esser chiesto a Napolitano di fermarsi un altro po’…

Già alcuni mesi fa si parlò del Napolitano-bis. Allora, Monti non era ancora sceso in campo, e si pensava all’attuale premier come ad una riserva della Repubblica da chiamare in caso di pareggio al Senato. Contestualmente, una delle ipotesi era, appunto, la rielezione di Napolitano. Magari, conferendogli un mandato “a scadenza”. Si immaginava che, dopo due anni, avrebbe potuto dimettersi. La politica è il regno del possibile, e l’ipotesi non si può escludere a priori. Tuttavia, le chance sono davvero basse.



Perché?

Non dimentichiamo, anzitutto, che sarebbe rieletto in prossimità degli 88 anni. Non è di certo l’età migliore per svolgere un incarico così delicato. Inoltre, in diverse occasioni, e da ultima nel corso del saluto di fine anno alle cariche più alte dello Stato, ha ribadito la volontà di non essere ricandidato. Infine, bisogna tener conto della prassi istituzionale secondo cui nessun presidente è mai stato eletto due volte.

Veniamo agli altri papabili

Il caso Mps, curiosamente, lambisce e incrocia i destini di tre possibili candidati. Mi riferisco a Giuliano Amato, Mario Draghi (entrambi, da tempo, in pole position per l’elezione) e Massimo D’Alema. Tutti e tre sono stati danneggiati dallo scandalo finanziario perché, in misura diversa, coinvolti.  

In che termini?

Amato, il candidato prediletto di Napolitano, ritenuto, ai tempi, anche un’ottima scelta alternativa a Monti per Palazzo Chigi, è sempre stato attiguo all’establishment che ha governato la banca; Draghi era governatore della Banca d’Italia ai tempi in cui le operazioni che hanno portato all’attuale disastro furono effettuate. E, di recente, Tremonti lo ha accusato di esser sempre stato perfettamente a conoscenza di tutto quello che avveniva a Piazza Salimbeni; D’Alema ha difeso il partito, rivendicando che è stato proprio il Pd a cacciare Mussari. Salvo il fatto che lo stesso Mussari è stato piazzato in quel ruolo dal medesimo partito, mentre la sua punizione è consistita nella presidenza dell’Abi. Detto questo, resto convinto del fatto che lo scandalo condizionerà la scelta finale senza risulterà determinante.

No?

In Italia, tutto si accantona e si dimentica in fretta. Salvo che, in questo caso particolare, non ci siano risvolti penali in grado di trascinarsi nel tempo. Se non ci saranno, Draghi a Amato, sul fronte dell’affidabilità, continueranno a essere considerati le scelte migliori. In particolare, Amato resterà il favorito. Sarebbe accettato, infatti, da entrambi gli schieramenti. Da sempre ha entrature nella galassia del centrosinistra ma, contestualmente, mantiene un certo rapporto con Berlusconi, fin dai tempi di Craxi.

E D’Alema?

Mentre nella scorsa elezione partiva come favorito, attualmente può rappresentare, al massimo, il candidato da tirar fuori laddove il Parlamento dovesse arenarsi nelle trattative. Ha, tuttavia, scarsissime probabilità di essere eletto. Bersani è dato come vincitore. E non s’è mai visto, in Italia, il presidente del Consiglio e della Repubblica appartenere allo stesso partito.

Fino a poco tempo fa, in ogni caso, il favorito era considerato Romano Prodi

Ultimamente è apparso più defilato. Potrebbe, però, ripetersi lo schema che nel 2006 portò all’elezione di Napolitano: il centrosinistra vince le elezioni, si accorda con Casini perché, essendoci già Bersani a Palazzo Chigi, non può giocarsi la partita in prima persona, e fa eleggere Prodi che, in quanto cattolico, prenderebbe anche i voti del centro (ma non del centrodestra).

Di recente, è stato rispolverato il nome di Franco Marini, ex presidente del Senato

Mah… parliamo di “vecchi arnesi” della prima Repubblica. Per carità, possono sempre tornare utili. Lo stesso Napolitano, del resto, era considerato tale e nessuno avrebbe mai pensato, all’epoca, che potesse concludere la sua carriera da presidente. Tuttavia, il “no” su D’Alema fu talmente forte, violento e convinto che prevalse un outsider. Insomma, da questo punto di vista tutto è possibile. Non dimentichiamo che l’elezione del presidente della Repubblica è la classica situazione in cui si entra da Papa e si esce da cardinale

Si parla di tre donne, infine: Rosy Bindi, Anna Finocchiaro ed Emma Bonino

Direi che nessuna delle tre ha la benché minima chance di essere eletta. Per la Bindi e la Finocchiaro valgono le stesse considerazione fatte per D’Alema: fanno parte dello stesso partito di Bersani. Per quando riguarda la Bonino, non dimentichiamo che il Paese è ancora a maggioranza cattolica. La leader radicale rappresenterebbe un elemento di rottura troppo vistoso. Si è fatto il nome di una quarta donna, l’unica che ha qualche remota possibilità: la Cancellieri…

 

(Paolo Nessi)