Il problema del governo non deve distogliere lo sguardo dalle necessità che ora si presentano nelle amministrazioni regionali. Roberto Maroni, nuovo governatore della Lombardia, ha vinto la battaglia della “sopravvivenza della Lega” nella regione più importante d’Italia. Con grande realismo, Maroni ha puntato al mantenimento del possibile, dopo “l’anno orribile” della Lega e dopo mesi in cui il centrodestra pareva allo sbando, destinato a un grande ridimensionamento elettorale. Maroni ha invece di nuovo sottoscritto l’alleanza di centrodestra e si è ora lanciato nel progetto di una macroregione del Nord, da contrapporre come modello funzionale, a quello che viene definito il “gran pasticcio”, se non il caos politico che si sta vivendo a Roma.



Come al solito all’interno della Lega, si presentano contrapposizioni un po’ provinciali, con i veneti, ad esempio. E c’è sempre sullo sfondo l’elettorato del “profondo nord”, la “pancia leghista” che trova controproducente l’alleanza con Silvio Berlusconi. Ma si può aggiungere che con la vittoria in Lombardia, Maroni abbia tacitato questa contrapposizione, che è in parte sottotraccia e che esiste, in fondo, da sempre nella Lega.



All’interno di questo schema strategico generale, Maroni deve però affrontare ora i problemi specifici della Giunta regionale lombarda, di quella che più complessivamente viene chiamata la “macchina” di una Regione, che nonostante le critiche e le varie inchieste giudiziarie, è quella che funziona meglio in Italia, con una eccellente sanità e, solo per fare un esempio, onora i suoi debiti nel giro di 60 giorni, una media perfettamente europea di fronte ai tempi biblici di tutte le altre amministrazioni pubbliche italiane.

In breve, il problema cruciale che sta di fronte a Bobo Maroni è quello di gestire il “dopo Formigoni”, sapendo che, al di là delle inchieste giudiziarie e dei vari e presunti scandali , deve garantire sempre la funzionalità che la Giunta lombarda ha dato in questi anni e nello stesso tempo deve dare segnali di discontinuità, di ricambio di una amministrazione che, nelle sue varie articolazioni, ha segnato 18 anni di vita della Regione Lombardia.



La sensazione che si avverte è quella che ci sia da un lato una voglia di “normalizzazione”, di “marcata discontinuità”, dall’altro un ricambio più fisiologico che punitivo. Si tratta insomma di vedere in quali “punti chiave” della macchina regionale ci saranno cambiamenti significativi.

Intorno a questa questione si intrecciano una serie di trattative sia tra la Lega e il Pdl, sia all’interno dello stesso Pdl. C’è indubbiamente un’ala del Pdl che ha sempre “sopportato”, più che condiviso, la presenza di Roberto Formigoni e dei suoi uomini al “Pirellone”. Poi c’è un’ala più dura della Lega, quella rappresentata da Matteo Salvini, che punta soprattutto sui segnali da dare all’esterno e insiste per la massima discontinuità con il passato.

Al momento è difficile prevedere quale logica prevarrà. Il realismo che Maroni ha interpretato in campagna elettorale si trasferirà probabilmente anche nella gestione della sua Giunta e della macchina regionale. Può anche essere logico un ricambio fisiologico, ma un’operazione di “pulizia” radicale sarebbe rischiosa, prima ancora che ingiusta. La Lombardia, per il suo pil, per il suo peso politico, non ha bisogno di “lavacri” a cui sacrificare le convulsioni che spesso vengono da campagne mediatiche piuttosto generiche e spesso di destabilizzazione che non portano da nessuna parte. La Lombardia ha bisogno di un cambiamento, di un rinnovamento nella continuità di scelte fatte in questi anni che la pongono, al di là di casi limitati, tra le regioni che meglio funzionano, in Italia e non solo.