Il Pd ha deciso di non seguire la richiesta di Giorgio Napolitano che esorta ad uno “sforzo serio di coesione” e tenta (come si diceva all’epoca della Dc) un “monocolore al buio”.

Eppure le ragioni a sostegno della strada indicata da Napolitano – e cioè di un’intesa tra Pd e Pdl – non sono irrilevanti. Primo: quando si ottiene la maggioranza alla Camera grazie a un “premio” che scatta per lo 0,37 per cento (e si è in minoranza al Senato) è doveroso privilegiare il rapporto con il partito superato per un soffio. Secondo: quando è prioritaria una rinegoziazione a livello europeo è logico ricercare una collaborazione tra i partiti che rispecchiano le due principali componenti che collaborano negli organismi esecutivi e assembleari dell’Unione Europea. Terzo: il Pd di fronte all’elettorato si era impegnato a ricercare prioritariamente una collaborazione sulla sua destra.



Bersani dichiara invece che intende rivolgersi unicamente alla sua sinistra fino a fare appello al voto dei singoli senatori eletti nelle liste di Beppe Grillo. Il Pd sembra iniziare da dove Berlusconi aveva finito: una maggioranza che Massimo D’Alema aveva ironicamente definito di “volontari”.

È un percorso con seri ostacoli, ma è anche vero che a Bersani non mancano carte da giocare.



La prima difficoltà consiste nel riuscire a spostare un gruppo determinante di senatori eletti dal grande attore genovese a cominciare da quelli emiliani. È realistico? I comunisti un tempo dicevano che il partito socialista si poteva mangiare come il salame: a fette. Ma era una situazione diversa. I socialisti che i comunisti potevano spostare erano nel bacino dei dipendenti della Cgil o delle amministrazioni di sinistra. Il Movimento 5 Stelle sembra diverso dal Psi “frontista”. Inoltre fare appello al trasformismo assembleare proprio mentre il Pd, per evitare ogni contatto con Berlusconi, cavalca lo scandalo sui parlamentari “venduti” potrebbe apparire una mancanza di linearità morale. Di certo ci si espone ad una reazione polemica da parte di Grillo non meno brutale di quella in  caso di accordo Pd-Pdl.



Bersani pensa comunque che, una volta riscossa la fiducia della Camera, anche se non ottiene quella del Senato, può rimanere a Palazzo Chigi e gestire il ricorso anticipato alle urne chiedendo agli elettori il voto che i parlamentari gli hanno negato.

In questa seconda tappa ci sono altri due ostacoli: Napolitano e Renzi.

In primo luogo per formare un governo che o prende la fiducia dei singoli parlamentari o porta il Paese al voto occorre il consenso del Quirinale e cioè un incarico non esplorativo, ma pieno e con il Presidente della Repubblica per tutto il tempo in stato passivo: silenzioso e consenziente. In secondo luogo per riproporsi una seconda volta come candidato-premier Bersani deve evitare nuove primarie che invece Matteo Renzi ha già richiesto.

Senza mandato pieno da parte del Quirinale e senza nuove primarie come può Bersani ipotizzare il percorso che ha intrapreso? Quali carte ha in mano?

Nei confronti del Presidente della Repubblica Bersani ha, a suo vantaggio, il fattore tempo. Una volta ottenuto l’incarico dal Quirinale siamo già nell’ultima settimana di marzo. Bersani inizia allora le consultazioni di tutti i gruppi parlamentari. Con la successiva audizione delle parti sociali (sindacati, Confindustria, commercianti, precari, extracomunitari, Associazione magistrati, ecc.) Bersani riesce tranquillamente a giungere alla vigilia dell’elezione del nuovo Capo dello Stato. A quel punto la platea dei deputati (con premio di maggioranza) e dei senatori di sinistra sfiora il “quorum” necessario. I candidati che possano essere votati dal “grillismo” e che garantiscano piena protezione al leader del Pd sono più d’uno. Prodi ha oggi l’“aureola” del defenestrato a causa di una compra-vendita di voti e poi, in “pole position”, c’è Emma Bonino che è ben vista nell’Unione Europea dove è stata commissario nominata di Berlusconi, ha già garantito voto e copertura “di destra” da Mario Monti, guida da anni l’ala “radicale” più filo-Pd e per il mondo “grillino” è un candidato sufficientemente “trasgressivo”: contro la Chiesa, contro “la partitocrazia”, contro la Rai, ecc.

Naturalmente bisogna dare per scontato che i parlamentari del Pd votino compatti come un solo uomo nel segreto dell’urna presidenziale.

Ma le carte che ha in mano Bersani a suo favore sembrano essere le inchieste giudiziarie: esse possono consigliare il silenzio a oppositori interni, imporre la “conventio ad excludendum” verso Berlusconi e il Pdl e, soprattutto, minare il carisma di Beppe Grillo consentendo di organizzare il necessario smottamento parlamentare. Stando sulla strada maestra il cammino di Bersani è destinato al fallimento in partenza, ma diverse scorciatoie possono aprirsi a suo favore all’indomani dell’incarico.

Rimangono invece senza risposta i due principali quesiti che riguardano il futuro della vita nazionale. Primo: come può essere gestita una trattativa a livello di Consiglio d’Europa, Banca europea, Commissione europea e riunione dei ministri economici europei dipendendo, giorno per giorno, dal voto “grillino” o di ex “grillini”? Secondo: con tale acritico aprire le porte alle tesi di Beppe Grillo – già in questi quindici giorni − sono più i voti che entrano o quelli che escono? Beppe Grillo, con Bersani e il Pd che gli chiedono udienza e voti, si è indebolito o si è rafforzato rispetto al 24-25 febbraio?

Quel che colpisce negli “otto punti” di Bersani sono inoltre i silenzi e le rinunce implicite. In sostanza Bersani cancella ogni impegno di ammodernamento infrastrutturale (dall’alta velocità alla politica energetica) e della realtà produttiva (dal mercato del lavoro al sistema fiscale).

La maggioranza sinistra Pd-“grillini” è quella di un paese con le mani legate che si affida alla clemenza dei mercati e al miracolo economico lasciando, agli occhi degli elettori e degli osservatori internazionali, Berlusconi e il Pdl come unico argine politico-istituzionale oggi esistente in Italia di fronte a quanto sostiene il Movimento 5 Stelle, dice e fa Beppe Grillo.