Un lungo articolo sul sito della rivista Vanity Fair rimette sotto la luce dei riflettori il capogruppo alla Camera del M5S, Roberta Lombardi. Come si ricorderà infatti qualche giorno fa venne reso noto un passaggio preso dal blog della neo deputata in cui sembrava che la Lombardi difendesse i momenti iniziali del fascismo. Si scatenarono le polemiche. Adesso viene invece alla luce una lunga battaglia della stessa Lombardi contro la leadership alquanto dittatoriale di Beppe Grillo. Tali contrasti vengono ammessi dalla stessa Lombardi che spiega che però in seguito Grillo ha cambiato atteggiamento. Il primo grosso problema sarebbe successo quando ancora il M5S non era stato fondato. Esisteva però già una rete di iniziative a cui la Lombardi prendeva parte con entusiasmo. Tanto da aver chiesto a Grillo un Meetup per dare alla luce un nuovo movimento politico: invece arrivano prima la Carta di Firenze a cui i seguaci devono conformarsi e poi l’annuncio di un convegno a Milano per il 4 ottobre 2009 in cui Grillo presenterà la nascita del Movimento cinque stelle. La Lombardi e altri rimangono di stucco tanto da chiedere: ma noi grillini siamo invitati? Al convegno di Milano alla Lombardi e agli altri con lei tra cui il futuro sindaco di Parma non viene permesso di leggere un documento che avevano preparato per chiedere spiegazioni a Grillo. Incontratolo però alla fine, questi li attacca e accusa di voler fare una specie di partito e che lui non ha tempo di leggere tutto quello che la gente gli fa avere: non è un congresso di partito questo, dirà. Scriverà a tal proposito la Lombardi: «Ho capito che a me di Grillo piace il programma, ma il metodo con cui si sta muovendo mi fa decisamente schifo. E’ un capo che a parole dice che non è un capo e che nei fatti prende e decide per me. Il che mi potrebbe anche stare bene, ma io ho un certo problemino con me stessa che si chiama coerenza». Sarà la furia di un momento perché poi Roberta Lombardi rientrerà nei ranghi del movimento spiegando che in seguito Grillo aveva risposto alle richieste che quel giorno voleva farle.
Talmente nei ranghi che quando scoppierà il caso di Giovanni Favia, il consigliere poi espulso dal movimento, lo definerà «un cazzoncello con la verità in tasca».