Una nebbia improvvisa è calata l’altro giorno sulla mia città. Dalla mia finestra non vedevo che macchie nere interrotte qua e là da qualche luminescenza. Il carattere assolutamente straordinario di questo evento per una città del sud sul mare mi ha trasmesso un senso di oppressione e quasi di claustrofobia che non avevo mai provato in altre città piene di nebbia. A Milano la nebbia può infastidire ma non sgomenta. Continui a sentirti a casa tua. A Catania la nebbia ti prende invece alla gola e ti produce un disagio da improvviso spaesamento.



Questa immagine mi viene in mente adesso che sto cercando di riflettere sulla situazione politica dopo la recente vicenda elettorale. Mi sembra, infatti, che sul nostro Paese stia calando una nebbia fitta e opaca che impedisce di vedere effettivamente ciò che è accaduto e che accade, quasi che si volesse cancellare l’insieme dei significati sconvolgenti che stanno assumendo giorno per giorno gli eventi della vita quotidiana. Al di là di tutte le analisi sul voto che gli italiani hanno espresso il 24 e 25 febbraio, un dato dovrebbe essere certo: lo sconvolgimento totale del quadro politico. I due partiti maggiori hanno perso insieme nove milioni di consensi; un movimento guidato da un comico di professione ha raccolto milioni di consensi sulla semplice proposta di cacciare tutti, politici, parlamentari, poteri e partiti che hanno governato il nostro Paese negli ultimi decenni. Il Parlamento registra una presenza inaudita di nuove reclute arrivate dalle più disparate regioni del Paese più con la voglia di fare folklore che con il desiderio di governare l’Italia. L’espressione dantesca “non donna di provincia ma bordello”, appare fin troppo tenera per descrivere una situazione di sbraco, di confusione, di omertà diffusa e di brutalità verbale.



Da che cosa nasce questa impressione e quali sono i fatti che invece dovrebbero stimolare subito una riflessione su quella che sicuramente rappresenta una svolta epocale del nostro sistema politico? I partiti, il parlamento e le istituzioni che hanno disegnato la nostra geografia politica sono tutti “scassati” da un vero e proprio uragano. Tutti, dando vita ad incontri più o meno addomesticati, fanno appello alla gravità della situazione e al famoso rischio di fare la fine della Grecia ma nessuno prova ad affondare il bisturi nelle ferite.

Cominciamo dal fenomeno Grillo. Al di là di ogni considerazione, il primo oggetto di analisi dovrebbe essere il linguaggio che circola in questo movimento così simile al genere di discorsi che circolavano in Germania  prima delle elezioni tedesche del 1932:



“noi non siamo come loro! Loro sono morti e vogliamo vederli tutti nella tomba… Non capiscono che questo movimento è tenuto insieme da una forza inarrestabile che non può essere distrutta, noi non siamo un partito, rappresentiamo l’intero popolo, un popolo nuovo”. Il confronto non vuole prospettare un’ennesima demonizzazione di un fenomeno reale – il successo di Grillo- ma cercare di capirne tutti i possibili significati. Bisogna partire certamente dal linguaggio e dallo stile, perché come tutti dovrebbero sapere, sono le parole adoperate che indicano la qualità del processo in cui si vengono formando i nuovi slogan.

Che Grillo faccia irrompere sulla scena una gran parte del nostro Paese che soffre emarginazione e povertà, disagio e frustrazioni, non è di per sé garanzia dell’esito al quale può portare. In ogni caso penso che configurare una democrazia senza partiti, senza istituzioni di confronto e senza distinzioni di ruoli, trasforma l’intero Paese in una moltitudine di individui isolati, tenuti insieme da una irrazionale spinta identitaria con tutto ciò che può apparire selvaggiamente vitale, ma che fatalmente apre la porta ad autoritarismi e totalitarismi sempre espressivi di fanatismo, intolleranza e conseguente domanda di ordine pubblico. Non è un caso che in questo clima la criminalità organizzata stia minacciosamente rialzando la testa come nel terribile incendio dell’intero parco della Scienza di Napoli che dovrebbe diventare giornata di lutto nazionale. Guai a chi evoca forze distruttive e non conosce l’arte di saperle trasformare in processo creativo.

Appare francamente penoso il tentativo di tanti intellettuali italiani di rivolgere appelli accorati a Grillo e a Casaleggio in nome della salvezza del nostro Paese. Non solo perché tutto l’establishment intellettuale e mediatico non può tirarsi fuori dalle responsabilità che hanno portato il Paese al degrado ma anche perché è veramente il frutto di una presunzione ingiustificata ritenere che il proprio supposto prestigio personale possa miracolosamente ripristinare gli argini di un vero fiume in piena.

È penoso anche quanto accade nel dibattito pubblico e interno al partito democratico. Intanto non è accettabile che al di fuori di una seria riflessione collettiva per analizzare le cause della sconfitta, i soliti notabili – che sono gruppo dirigente sin dalla svolta della Bolognina – rilascino interviste ed esprimano giudizi sulla linea sin qui seguita come se fossero dei puri spettatori di ciò che accade. Si capisce che c’è una profonda divergenza di vedute ma non viene individuato né il luogo né il modo con cui confrontarle.

 È il peggio di quel che può accadere ad un partito in crisi proprio per ragioni che riguardano la chiarezza e la novità della propria proposta politica. Nessuno prova davvero a fare i conti su quanto deleteria sia stata la subalternità mostrata nei confronti del cosiddetto montismo e delle istituzioni finanziarie europee e mondiali. Non è per gettare aceto sulle piaghe ma debbo amaramente riconoscere che forse nell’attuale direzione del Pd manca il coraggio per misurarsi davvero con il rischio della scomparsa nella storia italiana di una sinistra che non sia una pura voce di repertorio.

Squallido e deprimente il quadro offerto infine dal gruppo dirigente del Pdl e delle tante suffragette che si alternano ai microfoni per urlare fanaticamente la loro ammirazione per Silvio Berlusconi. La manifestazione indetta per il 23 marzo sul tema della giustizia è una vera offesa all’intero Paese e dico questo perché ho sempre criticato la magistratura che invade il terreno della politica e che in questo periodo storico ha perso ogni credibilità presso i cittadini con il suo costante tentativo di ipotizzare una soluzione giudiziaria dei grandi problemi del Paese. Non voglio pensare che alcuni magistrati facciano una vera e propria strumentalizzazione dei loro poteri d’indagine ma resto stupefatto dalla strana tempistica e contestualità che caratterizza molte iniziative giudiziarie di questa fase storica. Sono stato sempre convinto che l’azione penale debba essere obbligatoria ma che vadano tuttavia regolati rigorosamente il tempo e i modi in cui si svolgono le indagini. Da Monte dei Paschi, alla Finmeccanica, agli scandali della sanità, alle varie crisi industriali per gestioni illecite e noncuranti dei rischi per i cittadini: non c’è settore della nostra vita che ormai si sottragga all’attesa di provvedimenti giudiziari che non giungono mai a termine. È inutile ricordare che decenni di stragi e di delitti eccellenti non hanno dato al paese ancora alcuna verità definitiva.

Naturalmente non penso che si debbano concedere privilegi e immunità agli uomini politici più in vista ma sono convinto che la tempistica dei vari atti processuali debba tener conto del quadro generale del Paese e degli effetti destabilizzanti che si possono produrre nel corpo sociale quando il senso comune percepisce la singolarità di certe coincidenze. Naturalmente questa confusione tra politica e giustizia è stata nelle ultime elezioni fortemente incrementata dalle candidature di magistrati che per i loro compiti sono stati nella condizione di avere accesso a segreti e informazioni a cui i cittadini non hanno mai avuto accesso.

Il quadro appena delineato non può non apparire obiettivamente destabilizzante e trasformare l’intero Paese in una pura terra di conquista di capitali stranieri, sotto il peso sempre più incalzante di una continua rappresentazione internazionale di tutte le nostre anomalie che ci discredita anche come cittadini singoli.

L’incapacità delle classi dirigenti dei partiti storici e anche delle nuove formazioni non meglio identificate trova un drammatico riscontro nei preparativi delle prossime elezioni amministrative che si svolgeranno in molte città italiane. Nella mia città, nonostante permanga uno stato preoccupante di degrado generale, stiamo assistendo a penose dispute di palazzo con gruppi di pressione ben identificati che stanno contrattando la divisione del mantello di Cristo. Già il modo in cui si continuano a proporre candidature senza alcuna forma preventiva di selezione, magari ricorrendo alla riesumazione di figure ormai scomparse dalla scena, mostra il cinismo e la spregiudicatezza di una città narcotizzata dalla sfiducia e dalla disperazione per l’assenza di un futuro. Non è una caduta nel particolarismo sollevare in questo contesto anche il problema della città di Catania, perché ho sempre sostenuto che una vera riforma di questo Paese debba cominciare da una rinascita delle città, le mille città che tessono la rete della nostra convivenza.

Il futuro della politica si gioca su un progetto di città felice dove, come insegnavano i greci, lo scopo dell’agire collettivo è creare le condizioni di una libera convivenza. È la città il luogo in cui si radica la libertà dei cittadini, e una città affidata a scelte oligarchiche e a gruppi di pressione è il contrario della promessa di vera libertà di cui tutti abbiamo bisogno in un momento storico nel quale ciascun cittadino si sente minacciato nella sua vita materiale e nella sua libertà di parlare. Le prossime settimane saranno decisive e spero tanto che una rapida apparizione della fumata bianca possa essere il segno di un autentico cambiamento che produca una “conversione” della sete di potere in desiderio di vivere meglio e in armonia con il proprio posto nel mondo.