Il primo round, innegabilmente e contro ogni pronostico, lo ha vinto Pier Luigi Bersani. Ha spiazzato tanto i grillini, quanto Monti, ha puntato su nomi in grado di sparigliare, ma non è ancora uscito dall’isolamento che gli impedisce di essere certo di poter sedere sulla poltrona di Palazzo Chigi. Dopo la scelta di Laura Boldrini e Piero Grasso, anzi, la strada verso il governo si presenta ancor più in salita, anche perché si incrocia con un altro percorso tortuoso, quello che conduce alla scelta del successore di Giorgio Napolitano.
Bersani ostinatamente sta cercando di tenere le varie partite separate, per procedere sciogliendo un nodo alla volta, ma difficilmente potrà riuscirci. Contano i tempi: la formazione del governo precederà di pochi giorni la scelta del nuovo capo dello Stato, difficile che possano scaturire da maggioranze differenti. E in entrambi i casi il Pd non può farcela da solo. La matematica è impietosa: al Senato è impensabile che vi sia un “soccorso grillino” alla luce del sole di un voto di fiducia per appello nominale, perché i voti che mancano sono troppi, fra i 35 e i 40.
Anche per il Quirinale servono intese. Sommando deputati, senatori e delegati regionali del centrosinistra si arriva intorno a quota 500 su un collegio di 1007 grandi elettori. Per un pugno di voti Bersani non può fare da solo neppure in quarta votazione, quando basta la maggioranza assoluta.
La soluzione più semplice, almeno in apparenza, gliela ripropone con insistenza il Pdl, con Alfano che spiega: in un paese normale i due partiti maggiori collaborerebbero fra loro. E al centrosinistra propone uno scambio: via libera a un moderato al Quirinale (Gianni Letta?) in cambio di un atteggiamento benevolo che renderebbe più agevole la nascita di un governo Bersani.
Sulla carta tutto semplice, ma dal Pd fanno sapere che non esiste alcuno spazio per scambi indecenti. In fondo, quel che pensano in cuor loro i dirigenti di Largo del Nazareno è forse coincidente con quel “siete impresentabili” pronunciato domenica dalla giornalista Lucia Annunziata e che ha provocato la reazione furibonda di Alfano e dell’intero centrodestra. Impresentabili per colpa di Berlusconi e non solo. “I nostri militanti – ripetevano vari dirigenti democratici in questi giorni – non capirebbero alcuna forma di collaborazione con il Pdl”.
Restano due interlocutori, allora, ma in entrambi i casi sarà difficile, i grillini e i montiani. Gli eletti di Scelta civica, però, sono sufficienti a garantire l’elezione del Capo dello Stato, ma non il raggiungimento della fiducia in Senato. In più i rapporti con Monti segnano tempesta dopo il totale fallimento delle trattative intorno alle presidenze delle Camere. Un fallimento figlio – a quanto pare – del desiderio di Monti di entrare personalmente nella partita, o dalla postazione di Presidente del Senato, o in quella di Capo dello Stato.



A Bersani non resta che puntare tutte le sue carte su un’intesa con Beppe Grillo, magari intorno a un nome alla Grasso, o alla Boldrini, un nome a cui “non si può dire di no”. Realistico? Nella mente del segretario democratico probabilmente sì. Del resto, non si potrebbero leggere in altro modo i continui segnali di fumo inviati in direzione del Movimento 5 Stelle, ultimo in ordine di tempo l’apertura a rivedere la legge sul finanziamento pubblico ai partiti entro luglio.
Allo stato, però, questo è un autentico azzardo, anche se il cedimento del gruppo grillino al Senato con una quindicina di voti pro Grasso, autorizza a sperare che una breccia si sia aperta nelle mura del fortino a cinque stelle. Ma se il Fort Alamo organizzato dal comico genovese dovesse resistere, tutto tornerebbe in alto mare, e i democratici dovrebbero tornare sui loro passi e rivedere le loro strategie.
Il terreno su cui si misurerà la strategia bersaniana sarà però quello della formazione del nuovo governo. Nulla è scontato, neppure che il segretario democratico riceva l’incarico da Napolitano, vista l’incertezza dei numeri nell’aula di Palazzo Madama. Potrebbe essere un incarico esplorativo, o un reincarico, vecchi termini da prima Repubblica che riaffiorano all’alba della terza.
Lì si giocherà la partita decisiva, non solo sulle cariche istituzionali, ma anche sulla durata della legislatura.

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