In una situazione politica così incerta e di fronte a una crisi economica tanto problematica, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, continua a chiedere uno spirito costruttivo nell’interesse generale “senza dividersi in fazioni contrapposte su tutto, senza perdere, appunto, non solo spirito costruttivo e neppure il senso di responsabilità”. L’invito di Napolitano non è solo un messaggio dovuto alla particolare circostanza che sta vivendo l’Italia, ma è una parte integrante della sua storia personale, fin da quando cominciò a fare politica, anche quando era una delle giovani “grandi speranze” del Pci.
Il rifiuto di ogni massimalismo lo ha imparato addirittura dal gruppo dirigente napoletano comunista, dove spiccava non solo il durissimo Salvatore Cacciapuoti, ma anche il figlio di Giovanni Amendola, quell’altro Giorgio, che i napoletani chiamavano “Giorgio o’ chiatto”, contrapponendogli appunto l’elegante e allora giovanissimo Napolitano, “Giorgio o’ sicco”.
Non si può prescindere dalla storia politica di Napolitano nemmeno in un momento come questo. Il Presidente non si discosta certamente dalla sua esperienza, dalla scelta comunista compiuta e condivisa per una vita. Ma allo stesso tempo fa comprendere anche il ruolo che in quel partito ha cercato di svolgere, quello di un “riformista”, di un “socialdemocratico” (anche se a quei tempi questi termini erano quasi un insulto) che ha sempre cercato un terreno di unità con i partiti socialisti e laici e il rifiuto, se non il terrore, per lo schematismo massimalista. Lo stesso Presidente della Repubblica, nel settembre del 2007, ha fatto delle precisazioni sulla sua stessa esperienza, quando davanti alla tomba di Imre Nagy (il leader del 1956 ungherese, poi impiccato), dirà che è lì per un “dovere di Stato” ma, aggiungerà commuovendosi, anche per un “dovere politico e morale personale”.
La storia di Giorgio Napolitano è il ritratto della storia della cosiddetta “destra” comunista, che c’è sempre stata, anche se imperava il cosiddetto “centralismo democratico”. E la storia di quella “destra” del comunismo, che gli storici hanno studiato ben poco, è stata sempre travagliata, contestata dai “politburo” che governavano i rispettivi movimenti. Anche dopo che il comunismo è imploso, quella destra, definita un tempo sprezzantemente “socialdemocratica”, non piaceva ai post-comunisti. Forse era una ingombrante testimonianza degli errori fatti dai partiti comunisti dell’epoca della “guerra fredda”.
E’ indicativa, ad esempio, la lettera che Gyorgy Aczel (comunista ungherese prima in galera con Rakosi, poi collaboratore di Janos Kadar, poi allontanato dai sovietici nel 1974) scrive al suo amico Giorgio Napolitano il 13 dicembre del 1989: “Ora che si è finito per dipingere tutto di nero il passato, sono diventato il bersaglio dell’opposizione parlamentare di destra e di quei comunisti dogmatici di ieri che cercano di salvare se stessi come ultrariformisti”.
Napolitano non ha avuto la sfortuna del suo amici Aczel, ma certo tutto quello per cui si è battuto all’interno del Pci è in fondo sfumato. Dopo la cosiddetta “svolta della Bolognina”, dopo la caduta del “Muro di Berlino”, Napolitano è un protagonista dell’ala riformista, con Emanuele Macaluso e Gerardo Chiaromonte, che vogliono un approdo nella socialdemocrazia europea. E’ evidente che in una scelta come questa c’è una profonda revisione, non solo una svolta, l’ennesima “svolta senza revisione” del vecchio Pci sotto altro nome.
Ma a vincere sul futuro del nuovo partito, che resta anticapitalista (non c’è stata una Bad Godesberg come nella socialdemocrazia tedesca), è Achille Occhetto, con un programma e un’organizzazione improvvisata, che alla fine partorirà più che un partito una sorta di “comitato elettorale”.
Giorgio Napolitano non cercherà di “rompere” anche con quello che resta del suo passato, ma di certo la sua indipendenza di giudizio, la sua vocazione riformista e moderata non lo mettono sulla stessa sintonia del “nuovo partito”. Probabilmente sa anche bene che, quando nel partito i problemi restano insolubili, alla fine, la sua personalità è quella che, nell’ambito della sinistra, è la migliore soluzione per ricoprire alcuni incarichi istituzionali. E’ stato così in fondo anche quando è diventato Presidente della Camera, ma soprattutto ministro dell’Interno e più che mai quando è stato eletto Presidente della Repubblica. In quest’ultima occasione, il candidato “in pectore” si chiamava Massimo D’Alema. Forse qualcuno se lo è dimenticato in questa Italia di “smemorati”.
Ora si pone il problema di come Napolitano, con la sua storia, affronterà questa crisi. Come tutti i grandi riformisti, Napolitano è un realista, con senso della tradizione e spirito innovativo, che ha orrore del “vuoto” in politica e diffida dei “salti nel buio”. Ci si chiede se affiderà a Pier Luigi Bersani un incarico difficile, perché per la maggioranza al Senato mancano una quarantina di voti.
In queste ore, per un eventuale governo di Bersani, si parla nell’ordine di: “dissidenti “grillini”; appoggio dei “montiani”; possibile astensione “leghista”. E’ un terreno molto friabile che al Presidente della Repubblica creano probabilmente molti dubbi. In tutta questa vicenda ingarbugliata, fa impressione che il “socialdemocratico” del vecchio Pci debba di nuovo risolvere i problemi dei suoi “vecchi compagni”, che invocano “nuovismo” a tutti i costi e si muovano con un tratto di neo-massimalismo che non ha mai portato buona fortuna.