Mettiamo che io abbia a Roma una casa di proprietà, comoda e arredata secondo i miei gusti. Mettiamo che mi offrano una carica istituzionale che comporti una sistemazione abitativa ufficiale, ma troppo pomposa, scomoda, all’antica. Mettiamo che il mio stipendio, uguale a quello di tutti i parlamentari, sia considerevole, ma che la mia carica presupponga un’indennità speciale. E mettiamo che io sia di buon cuore. Rinuncio alla casa, resto nel mio nido e l’indennità me la taglio del 30%. Ovvero: prendo un’indennità un po’ più piccola, si parla di centinaia di euro, lo stipendio non me lo tocco, della casa ho già detto, rinuncia facile, non mi interessa.



Anche se converrebbe allo Stato ospitarmi in una location controllata, in locali che già sono apparecchiati a quell’uso, e serviranno agli eletti comunque di giorno per lavori d’ufficio e rappresentanza; e converrebbe non dover pagare una macchina che vada a prenderli e riportarli, seminare le scorte per i vicoli di Roma, inseguendo le ubbie dei nuovi cittadini che vogliono mescolarsi al popolo. Condisco il tutto con un dichiarazione d’intenti che propone il taglio degli stipendi di tutti i parlamentari. Mal comune mezzo gaudio, tanto ci vuole tempo, bisogna votare, non sarà magari il primo e più urgente dei provvedimenti da prendere.



Ora, capisco la vague francescana, che fa comodo per accalappiare i grillini neoeletti, ma non mi sembra un gesto tanto eclatante e rivoluzionario da riempire le pagine dei giornali. Gira che ti rigira, i politici nostrani trovano sempre il modo di essere generosi con abili operazioni d’immagine, ma poca sostanza. E tutti lì a gridare al miracolo, e ai “finalmente”. Niente da dire sui nuovi presidenti di Camera e Senato, miracolati sulla strada di un governo possibile, sui loro curricula, anche se un po’ d’esperienza politica io non la butterei via così, con l’acqua sporca, per cavalcare l’onda dell’antipolitica, e soltanto per insediarsi sugli scranni della politica.



Temo che Bersani nella sua indomabile e comprensibile volontà di governo (questo sì, “finalmente”, che non ci sono mai riusciti davvero) porti a schiantarsi il partito e il paese, condannandolo all’ingovernabilità, dopo una serie di misure populistiche, buone a stuzzicare qui Sel, qui Casaleggio e i suoi (i temi cosiddetti etici sono i primi di cui preoccuparsi, i più facili, non costano nulla, interessano i più agitati, alla gente passano sopra come l’acqua che scorre, basta una maggioranza ad alzata di mano, e adesso la maggioranza è schiacciante. I cattolici? Ce ne sono ancora? Non sono tutti ad occuparsi di povertà e missioni? Ma se perfino il papa ha detto che la Chiesa deve occuparsi dei poveri, adesso non s’intrometterà più nelle questioni politiche!).

Ma più mi preoccupa il pauperismo ad hoc, l’accomunare ipocritamente le scelte di un papa, praticate in tutta una vita, con gli intrallazzi per mettere insieme una maggioranza. E questo dopo una campagna elettorale in cui di temi concreti, e la povertà è cosa concretissima, s’è parlato pochissimo, se non per slogan vuoti di contenuti. Alleanze e poltrone, questo s’è visto, da dicembre in qua. Non basta sventolare otto o dieci punti abborracciati e onnicomprensivi per fare un programma di governo.

Ma tant’è, i nostri commentatori di grido hanno scoperto che poveri è bello, come se il programma di papa Francesco l’avessero scritto Stella e Rizzo, e via con l’ammazzacaste, da quelle ecclesiastiche a quelle partitiche. Almeno a vedersi. Non è casta un leader che, primarie o non primarie, si sceglie i suoi uomini e donne per i posti che contano? Se è giunta l’ora della verità, un po’ di coraggio vero, sugli stipendi, va bene, ma soprattutto nell’informazione.