Caro direttore, in questi giorni di concitazione e incertezza mi sono trovato a riflettere sul significato della mia esperienza alla luce del risultato elettorale Italiano.

L’occasione me l’hanno offerta due lunghe conversazioni avute con due cari amici, entrambi come me educati in un’esperienza di fede operosa e pertinente alla vita. Discutendo dell’esito elettorale abbiamo scoperto che ciascuno di noi aveva votato diversamente. La mia prima reazione è stata una certa amarezza. Credo fermamente che vi sia un unico criterio adeguato per prendere posizione negli ambiti decisivi della vita (destino, affettività, politica): quello che don Luigi Giussani mi ha insegnato a chiamare “cuore”. Il complesso di esigenze ed evidenze che costituiscono il cuore (bellezza, verità, giustizia, bontà,…) trova la sua espressione in ambito politico nella definizione di criteri, al plurale, come quelli espressi nella dottrina sociale della Chiesa: sussidiarietà, solidarietà e bene comune.



Ebbene, la prima impressione dopo aver parlato con i miei amici era che in qualche modo il cuore in questo caso non fosse stato sufficiente. In altri termini, mi sono trovato scandalizzato dal fatto che a fronte di un criterio unico e di una realtà complessa, problematica ma, a sua volta, unica, tre persone sinceramente adoperatesi ad usare il criterio del cuore fossero pervenute a tre decisioni completamente differenti.



In situazioni analoghe, in passato, la mia risposta standard per mettermi il “cuore” in pace sarebbe stata più o meno in questi termini: “c’è di mezzo la libertà” (oppure, la versione più cupa: “c’è di mezzo il peccato originale”). Il criterio è unico, la realtà è unica ma qualcosa interviene in mezzo e impedisce che i due fattori combacino adeguatamente nel giudizio. Questa volta però una simile risposta, seppur corretta, mi pareva una semplificazione inaccettabile. Non potevo raccontare a me stesso che uno di noi tre – presumibilmente io – aveva “usato” il criterio del cuore bene, mentre gli altri due ci avevano provato ma poi erano partiti per la tangente. Inoltre, sebbene la libertà e il peccato originale siano sempre stati di mezzo (nel bene e nel male, rispettivamente), la scoperta che due cari amici impegnati ad usare i criteri indicati dalla Chiesa avevano preso posizioni politiche opposte alla mia è una novità recentissima. Non è ragionevole spiegare il nuovo in base all’immutabile.



La sensazione era che stavolta la realtà da giudicare, sebbene unica, fosse davvero troppo complessa, tale da rendere destinati alla divergenza anche gli sforzi di lettura e valutazione più sinceri.

Tuttavia, anche questa spiegazione, che pure mi sembra la meno inadeguata, non mi soddisfa del tutto. Sembra implicare che se disponessimo di quello che Kant chiamerebbe un intelletto infinito, capace di scrutare in tutte le sue pieghe la complessità della situazione attuale in Italia e nel mondo, allora saremmo stati in grado di identificare univocamente la scelta “giusta”. La conseguenza sarebbe che non ci siamo impegnati abbastanza,  cioè che sebbene non disporremo mai di un intelletto infinito, se ci fossimo dati la pena di scrutare un po’ più di pieghe un po’ più a lungo ci saremmo forse avvicinati per approssimazione alla convergenza sul giudizio di voto che, in fondo, tutti e tre desideravamo. Ma mi pare troppo evidente che il problema non è riducibile alla limitatezza delle nostre conoscenze.

Sinceramente non ho ancora trovato una risposta a questo problema (a mio avviso profondissimo) che mi soddisfi per davvero. Sarei grato a chiunque volesse condividere delle ipotesi. Tuttavia l’insoddisfazione e l’amarezza hanno ceduto il posto alla gratitudine e ad un senso di speranza quando, a mente fredda, ho realizzato che ero stato testimone di una specie di “miracolo”: sebbene in disaccordo sulle decisioni di voto, io e miei due amici avevamo avuto una conversazione ricca e produttiva, ironica ma non cinica, tesa a identificare le priorità per il Paese senza pregiudizi, rispettosa verso le scelte dell’altro e desiderosa di comprenderne i motivi. Altro che “divisione”, “spaccatura”, “rifiuto di ogni collaborazione” e simili grettezze spacciate come conseguenze inevitabili del disaccordo politico!

Per assurdo (ma per intendersi), se mi avessero proposto di formare un governo con Paolo e Marta avrei accettato subito e con entusiasmo. L’esperienza profonda di quei dialoghi è che noi tre, sebbene fossimo in disaccordo eravamo, ultimamente e letteralmente, concordi. Ho così realizzato che forse stavo cercando il punto di convergenza nel posto sbagliato, vale a dire nell’output del voto (dove pure è legittimo desiderarlo) invece che nell’input dell’uso del cuore educato dalla fede. Mi sono reso conto che la vera novità per me in questi giorni confusi è stata la scoperta della differenza tra accordo e concordia, che in passato avevo incautamente mischiato.

L’uso del cuore genera, letteralmente, concordia. Unisce nel profondo, creando una convergenza che non si rivela primariamente a valle (nel giudizio effettivo) ma a monte, nel riconoscimento reciproco dell’altro come fratello uomo impegnato nel difficile esercizio del giudizio. L’accordo a valle poi può esserci o non esserci, magari è addirittura un bene che non ci sia da subito perché nel tempo costringe i soggetti giudicanti ad una maggiore vigilanza critica e alla produzione di giudizi più realistici e articolati. Ma è scoprirsi concordi a monte che costituisce la vera novità, troppo spesso messa in ombra quando ci si può godere (accontentandosi) il lusso di essere d’accordo a valle.

Ho pensato allora che forse ancora una volta se vi sarà riscossa in Italia verrà dall’unico fattore unificante in un Paese tradizionalmente frammentario: il cattolicesimo come portatore e promotore di una religiosità autentica, cioè dello sforzo di giudicare tutto (compreso Cristo) a partire dalle esigenze profonde inscritte nel cuore.

C’è da augurarsi che i cattolici impegnati in politica (dentro e fuori dal Parlamento) non lascino che la pressione del potere trasformi i disaccordi in discordia. In un contesto di assoluto disaccordo solo chi vive un’esperienza di concordia potrà avere la forza elaborare soluzioni e progetti nuovi per il futuro. Si noti che con questo non intendo assolutamente paventare un ipotetico partito dei cattolici. Non è accontentandosi di cullare il sogno di essere tutti d’accordo in un unico partito che daremo un contributo reale, anche perché, banalmente, d’accordo non lo siamo. Credo che solo il cammino più lungo e personale di una riscoperta della concordia all’origine, se percorso, nel tempo darà frutti nuovi anche in politica.

In un contesto in cui tutto spinge a pensare l’opposto, occorre non soccombere al nichilismo per cui “l’uomo è ciò che vota”, un po’ come per Feuerbach “l’uomo è ciò che mangia”.

Nonostante tutte le domande ancora aperte e l’amarezza per non essere riuscito a esprimere un giudizio che rendesse giustizia all’unicità del cuore e all’unicità della realtà, sono grato di aver potuto intravedere un segno di speranza nell’unità con chi cerca di vivere secondo le proprie esigenze originali educate dalla fede.