Caro direttore, 

Si era dichiarato «sereno», cercando di stemperare la tensione che lo avvolgeva dalla richiesta di provvedimento disciplinare inviata al Csm dal ministro Severino: Rivoluzione Civile è collassata sotto il peso del bagno di democrazia di febbraio, che hanno rivolto alla formazione arancione appena il 2,25% alla Camera e un risultato ancora più esile al Senato. E dopo la mazzata elettorale, Ingroia ha visto cedere la terra sotto i piedi, mentre continua tuttora a rimandare la decisione sul suo futuro, in bilico tra la toga e la tribuna politica; intanto ha dovuto incassare le dure critiche di molti sostenitori del suo partito, anche quella del sindaco di Napoli De Magistris, in prima linea dall’inizio per sostenere la candidatura del leader: «Ha candidato persone espressione della vecchia politica» e «non ha rappresentato il cambiamento vero».



L’azione disciplinare riguarda le dichiarazioni rilasciate il 10 e l’11 marzo sulla sentenza di assoluzione di Dell’Utri, emessa dalla quinta sezione penale della Corte di Cassazione, contro cui Ingroia aveva scagliato una critica pesante, affermando di avere la «sensazione che la sentenza e il dibattito che strumentalmente ne sta scaturendo rientrino in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che erano del pool di Falcone e Borsellino».



In fondo, è possibile che un magistrato indaghi sulla trattativa Stato-mafia generando un polverone mediatico dietro un trucco senza reato, intercetti il presidente della Repubblica e faccia scoppiare una guerra mediatica fra Repubblica e Fatto Quotidiano, definendo la rottura tra Pd e Idv. Ed è possibile che, nel bel mezzo dell’inchiesta, parta per il Guatemala per sconfiggere il crimine che serpeggia e che torni dopo poco più di un mese, abbandonando una missione dell’Onu e giocando parte della credibilità del paese. O meglio, è possibile se torna per candidarsi e levarsi dalle aule di tribunale, almeno per qualche anno. Anzi, è possibile anche abbonare a Ingroia una sanzione disciplinare, purché lasci la toga nel cassetto per un valzer quinquennale a Montecitorio. Se però le elezioni lasciano il rivoluzionario a piedi – o tra i piedi –, forse è possibile che, tra comizi rossi, tensioni mediatico-istituzionali, Corte costituzionale nell’occhio del ciclone, missioni Onu abbandonate, elezioni sotto il segno della legalità e una rivoluzione affondata (molto civilmente), qualcuno voglia quantomeno evitare che l’immagine del sistema giudiziario possa essere compromessa senza conseguenze.



L’altro ieri la terza commissione del Csm, dovendo procedere d’ufficio perché l’aspettativa era scaduta l’11 marzo scorso senza che Ingroia rinunciasse alla leadership di Rivoluzione Civile o alla toga, ha deciso di spostarlo ad Aosta, nell’unica regione in cui non si era candidato in lista, perché la legge vieta che un magistrato torni subito a giudicare o a espletare funzioni requirenti nel luogo della propria candidatura.

Il reintegro è in qualità di giudice, poiché non può svolgere il ruolo di pubblico ministero per cinque anni, al termine dei quali potrà, inoltre, chiedere il trasferimento di sede. La decisione ora spetta al plenum del Csm, che dovrà valutare il voto della terza commissione, e a Ingroia, che dovrà scegliere se accettare l’incarico (e dimettersi da Rivoluzione Civile pena un altro provvedimento disciplinare) oppure lasciare la toga e dedicarsi alla vita politica.

Ingroia è stato anche al centro dell’incontro “Dalla toga alla politica” svoltosi venerdì nella Sala Napoleonica dell’Università degli Studi di Milano, dove Nicolò Zanon – membro laico del Csm – e Vittorio Borraccetti – membro togato –, hanno dialogato insieme alla professoressa Villata e al professor Vigevani sulla normativa vigente e su proposte di riforma dell’ordinamento. Per Borraccetti, l’indagine sulla presunta trattativa Stato-mafia è stata costruita «più mediaticamente che giuridicamente» e Zanon ha criticato la scelta di averla abbandonata per rincorrere con un atteggiamento «pretestuoso» l’incarico ricevuto in Guatemala. Il giudizio comune dei due membri del Csm è che alcuni episodi che hanno coinvolto Ingroia e anche Pietro Grasso siano da annotare quantomeno come frutto di una deontologia professionale non sempre perseguita correttamente.

La parabola del magistrato di Palermo sembra giunta a un punto cruciale, mentre i giorni si susseguono e il terreno sotto i suoi piedi si fa sempre più instabile. Il bivio lascia ancora aperte le due strade, ma il tempo stringe la morsa tra l’iter del Csm e una rivoluzione lontana dal sol dell’avvenire.