Forse la migliore descrizione di questo inedito momento costituzionale l’ha data il costituzionalista Stefano Ceccanti: siamo di fronte a un time out istituzionale. Giorgio Napolitano come un allenatore di basket, o pallavolo, che vede la sua squadra giocare tanto male, ed è costretto a chiedere una pausa. Richiama tutti i giocatori intorno a sé per parlarci sopra e tornare in campo con le idee più chiare.
La squadra è l’Italia, la partita è la formazione del governo, e gli avversari sono gli speculatori internazionali che hanno già ripreso a girare minacciosi intorno alla Penisola, e per il momento stanno spolpando la piccola Cipro.
Certo, all’allenatore-presidente capita di giocare la partita più difficile della sua carriera proprio alla vigilia dal ritiro dalla scena e dovrà fare appello a tutta la sua esperienza e fantasia per uscire dall’angolo. La situazione si presenta ingarbugliata in modo inedito, ma non del tutto compromessa. Se così non fosse, Napolitano non sarebbe tornato personalmente in campo.
Bersani, in un colloquio descritto da sinistra come tutt’altro che teso, non ha posto ultimatum, non ha tentato forzature, non ha chiesto la conferma dell’incarico, o almeno così si assicura. La lunga durata del colloquio – viene spiegato – è servita ad approfondire la situazione. Il giro di consultazioni lampo che Napolitano farà, gli servirà ad ascoltare con le proprie orecchie quali sono le “preclusioni” e le “condizioni inaccettabili” di cui ha parlato Bersani stesso uscendo dall’incontro. Non a caso i primi chiamati sul Colle sono Pdl e Movimento 5 Stelle.
E qui veniamo ai punti nodali. I Grillini dovranno spiegare a Napolitano perché continuano a rifiutarsi di votare la fiducia a un governo che nascerebbe con una piattaforma programmatica molto vicina alla loro. Sarà un dialogo tutt’altro che facile, perché sul no a Bersani i 163 parlamentari a 5 Stelle sembrano rimanere compatti, mentre filtra una certa disponibilità a riconsiderare la posizione qualora dal Quirinale venisse avanzato un nome davvero super partes, nome però davvero difficile da individuare.
Non meno arduo sarà però saggiare le intenzioni del centrodestra, con Berlusconi seduto di fronte a lui. Il Cavaliere considera ormai Bersani fuori dai giochi, ma ascolterà con attenzione quanto Napolitano avrà da proporre. Non cederà di un millimetro da quelle che il leader democratico ha ritenuto richieste inaccettabili, e cioè nomi di garanzia nel futuro governo e un moderato al Quirinale. Secondo Berlusconi Pd e Pdl, pari nei voti popolari, meritano pari dignità. Quindi la via maestra resta un governo di larghe intese, con o senza Bersani. E l’ipotesi di consentire la nascita di un governo di minoranza che, una volta presa la fiducia, sforni una serie di provvedimenti “alla grillina” (ineleggibilità, giustizia, conflitto d’interessi, frequenze tv) non lo sfiora minimamente.
O Bersani cede, con la mediazione di Napolitano, oppure meglio un governo del presidente. Oppure, meglio ancora, tornare alle urne a giugno. E l’alleato leghista, in questa fase, non sta mostrando alcun desiderio di smarcarsi. Il Pd non è riuscito a rendere appetibile questo scenario, anche se l’ipotesi di un precipitoso ritorno alle urne viene vista in via Bellerio come il fumo negli occhi. Dunque Lega e Pdl saliranno ancora una volta insieme al Quirinale.
Tanto guardando al Movimento 5 Stelle, quanto guardando al centrodestra (scenari ovviamente alternativi), i margini di manovra sono minimi. Né può offrire aiuto più di tanto Scelta Civica (in grande fermento interno): anche i montiani non intendono prestarsi a far nascere un governo destinato poi ad applicare un programma a 5 Stelle. Le discriminanti restano il no al populismo e il si all’Europa. Anche questa pattuglia, delusa da Bersani, privilegia quindi l’ipotesi delle larghe intese, o di un governo di scopo, del presidente. Nella rosa dei nomi possibili da qualche ora ha preso quota quello del direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni.
Il principale ostacolo in questo senso è però proprio il Partito democratico. Senza il consenso di questa forza politica non può nascere alcun esecutivo. Al suo interno il redde rationem appare sempre più vicino, ma congelato, come l’incarico di Bersani. Un “secondo tempo” del suo tentativo è auspicato da tutti, ma appeso a un filo. Di fronte a un nuovo nome avanzato dal Colle le divisioni interne sono destinate ad esplodere. C’è persino chi − come Rosy Bindi − avrebbe minacciato di lasciare la presidenza se venissero avallati inciuci con il centrodestra. E Vendola insiste ancora con la richiesta a Napolitano di consentire a Bersani di cercasi i voti in Parlamento.
Il capo dello Stato, però, non sembra propenso a sconti: senza numeri certi lui non manderà il primo governo della legislatura a schiantarsi in parlamento. Piuttosto potrebbe dimettersi ai primi di aprile per accelerare la nomina del suo successore (che avrebbe quel potere di sciogliere le Camere che lui ha perduto), anche se lasciare i partiti senza un governo a scannarsi sul nome del suo successore è un’ipotesi che gli fa venire i brividi.