Chi comanda in Italia? In Italia non comanda nessuno: e quindi si comanda solo con il denaro. Comandare significa esercitare il potere. Ossia costringere B a compiere quelle azioni volute da A anche se B non ne conviene, non è d’accordo. Implica la minaccia della forza, se non l’uso di essa. Naturalmente non esistono sistemi sociali, aggregazioni umane, in cui il potere si possa esercitare con continuità allo stato puro. Sempre interviene il principio e la prassi “di autorità”, che, nel sentito comune, oggi si intende come un designare con “autorevolezza”. Ossia il processo secondo cui B esercita i comportamenti, pone in atto le volizioni volute da A, non perché teme la forza, ma perché è convinto che A sia dotato di autorevolezza, sia portatore di un carisma, tradizionale o rinnovato che sia. Insomma, il potere sempre si mescola con l’autorità e non vive senza di essa.



Non si tratta di una questione sul sesso degli angeli (tema, peraltro avvincente), ossia di una discussione tra pochi dotti sempre più isolati dal mondo. È questione, invece, precipuamente mondana. I sistemi sociali danno vita a un sistema di esercizio del comando e quindi a poteri che sono tanto più universalistici, ossia generali, tanto più sono intrisi di autorità. Lo sono allorché non sono solo protesi alla cura e alla difesa o all’affermazione dei propri interessi immediati, ma debbono – di qui l’autorità – adempiere a dei doveri più generali, più ampi e non immediatamente apportatori di risorse agli interessi “particolari”.



È questo l’esercizio del potere inteso come egemonia: intreccio di dominio e di legittimazione che rende le poliarchie, soprattutto quelle democratiche, in grado di riprodurre il pluralismo e con esso la competizione e la compensazione degli interessi (la “mediazione”) nella convivenza della diversità culturale che culmina, nel processo della rappresentanza territoriale, nella competizione elettorale. In questo modo chi comanda non dà vita a un sistema di potere a somma zero: se si comanda generalisticamente si soddisfano, unitamente agli interessi propri, taluni interessi generali. È questo che, del resto, consolida la poliarchia democratica: con gli interessi dei poteri situazionali di fatto (grandi imprese, grandi organizzazioni di rappresentanza, poteri occulti) si compongono quelli promananti dalle volizioni elettorali, tanto più forti quanto più densi della rappresentanza numerica trasmutata in consenso o accettazione pragmatica.



Questo comporsi è frutto di un esercizio del potere di comando intriso di autorità generalistica che apporta legittimazione alla circolazione delle classi politiche e sostiene il potere situazionale di fatto di un consenso tanto più forte quanto più è consustanziale alla crescita economica. È questa forma del comando sociale, del resto, che fa sì che il nesso nazione-internazionalizzazione non sia solo un rapporto subalterno, tipico di uno Stato a tardiva unificazione come l’Italia con una debole coscienza nazionale. Il comando in cui il potere è intriso di autorità rende quel nesso più forte, ma meno subalterno. È questo che è mancato in Italia salvo pochi momenti della nostra vita repubblicana.

Oggi il potere di comando ad alto tasso di egemonia è profondamente decaduto. Alla frammentazione sociale disgregante, per effetto della crisi economica mondiale e della bassissima crescita a bassa produttività del lavoro, si è ora accompagnata la disgregazione politica con frantumazione tripolare dell’arco delle volizioni elettorali, generando, in un meccanismo elettorale pensato per l’impossibile bipolarismo a cui l’Italia era destinata solo nelle urne craniche di tecnici e politologi incompetenti, una terribile molecolarizzazione del potere. Il tutto aggravato dalla crisi che ha le sue radici italiche nel processo di interruzione della crescita economica generato dalle privatizzazioni senza liberalizzazione degli anni Novanta del Novecento.

Quelle privatizzazioni senza liberalizzazione hanno generato, nella caduta del commercio mondiale, un crollo della produzione e hanno posto i prodromi per cui si fosse esposti nel peggiore dei modi ai venti devastanti della crisi da eccesso di rischio finanziario, da eccesso di sovrapproduzione industriale, da eccesso di darwinismo sociale.

Da ciò è scaturita un’accentuazione di una italica tendenza. Tutti comandano per far sì che nessuno comandi. L’importante non è vincere, ma impedire agli altri di vincere. Nella crisi da disgregazione, il destino guicciardiniano d’Italia ora è a noi dinnanzi.