E’ iniziato il “toto” Quirinale con l’impazzare di nomi; i più gettonati: Prodi, Anna Finocchiaro, Giuliano Amato, ora anche Rodotà. Già, ma come mai tutti nomi “democratici”, considerando che il PD non ha la maggioranza nelle Camere? In realtà, il giurista Alberto Gambino ci spiega che l’attuale legge elettorale consente l’elezione di un capo dello Stato anche se non si ha la maggioranza di Governo, con la conseguenza che il PD, d’accordo con Sel e Lista Monti, può eleggere la massima carica dello Stato, pur non avendo i numeri per governare. Come sia possibile tutto ciò e quali, a questo punto, i candidati più accreditati lo abbiamo chiesto allo stesso prof. Alberto Gambino, ordinario di istituzioni di diritto civile e direttore del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Europea di Roma. 



Professore, intanto ci spieghi come è possibile che chi non raggiunge una maggioranza di governo può però eleggere il capo dello Stato. 

E’ la conseguenza del premio di maggioranza alla Camera, che, ad una coalizione votata soltanto da un italiano su tre, con meno di mezzo punto di vantaggio, assegna oltre duecento deputati, tecnicamente “inutili” – e, dunque, anche dispendiosi – ai fini della formazione del Governo, non trovando la stessa maggioranza al Senato.



In che senso questi duecento deputati sono importanti per l’elezione del presidente della Repubblica?

Non sono solo importanti, ma addirittura decisivi. Infatti nella Seduta comune quando si dovrà eleggere il Capo dello Stato, riunite assieme Camera e Senato, i parlamentari di PD, Sel e Lista Monti (pur non potendo formare un governo) potranno esprimere, da soli, dopo la terza votazione il nuovo Capo dello Stato, proprio per effetto dell’abnorme premio di maggioranza alla Camera che finisce per annullare il gap di differenza in Senato.

Ma questo possibile esito non ribalta il dettato costituzionale, che individua nel capo dello Stato il garante dell’unità nazionale e, dunque, la figura che deve essere istituzionalmente e numericamente più rappresentativa? 



Certamente sì. E in effetti solo per il capo dello Stato la Costituzione prevede nelle prime tre votazioni una maggioranza qualificata di almeno due terzi di parlamentari. Non è così né per la fiducia al premier, e neanche per l’elezione dei presidenti di Camera e Senato. Con questa legge elettorale, ora potremmo avere un presidente della Repubblica meno rappresentativo del premier e, addirittura, della seconda carica dello Stato, il presidente del Senato.

Ci spiega meglio? 

Sia il premier che il presidente del Senato per essere tali dovranno conseguire una maggioranza al Senato, che può essere soltanto frutto di un accordo tra PD e PDL, oppure PD e M5S, o addirittura tra tutte e tre le coalizioni. Mentre per il capo dello Stato ciò non sarà necessario, perché, come detto, potrà far leva su quei duecento deputati in più assegnati al Pd alla Camera. La conseguenza di questa folle legge elettorale è che il capo dello Stato sarebbe meno rappresentativo addirittura del suo vice (il presidente del Senato appunto) e del premier dello schieramento di Governo, che per definizione è “di parte”.

Possibile che soltanto adesso ci si accorga di questa anomalia? 

Questa deformazione della rappresentanza c’era anche prima della tornata elettorale odierna, ma il bipolarismo ne nascondeva l’effetto perverso. Chi, infatti, tra i due poli vinceva, pur non ricevendo i voti della maggioranza degli italiani, conseguiva comunque la maggioranza assoluta degli eletti in ciascuna delle due Camere (magari di poco al Senato), e così prendeva tutto, a cominciare dalle presidenze delle istituzioni rappresentative. E già questa prassi, ai costituzionalisti più avvertiti, era sembrata una forzatura da parte di un sistema elettorale reso “maggioritario” al fine di garantire la governabilità, ma che finiva per ridurre la rappresentatività nell’elettorato anche delle più alte cariche dello Stato. Ora che i poli sono almeno tre, è chiaro che la distanza tra ciascuno di essi e la maggioranza assoluta dei seggi è notevolmente aumentata.

 

 Chi è favorito, a questo punto, per l’elezione del capo dello Stato? 

 Il PD evidentemente, che ha acquisito l’abnorme premio di maggioranza alla Camera.

 

E, dunque, chi potrebbe eleggere, facendo a meno degli altri due poli?

Forse Romano Prodi, certamente apprezzato anche da Sel e Lista Monti. O, anche, Anna Finocchiaro, che aggiungerebbe i voti della Lega, ma anche con questo partito senza essere maggioritaria al Senato. Oppure Giuliano Amato… Lo stesso Monti, anche se Sel probabilmente si sfilerebbe. 

 

Ma un presidente della Repubblica “di minoranza” che conseguenze politiche avrebbe? 

 Sarebbe un boomerang che aumenterebbe il divario tra elettorato e istituzioni rappresentative, riversando consensi sui poli che non partecipano all’elezione della più alta carica dello Stato. Si tratterebbe di una forzatura inoltre “sub iudice”, poiché non ci vuole certo una palla di cristallo per prevedere che la Corte costituzionale nella prima occasione utile dichiarerà incostituzionale una legge elettorale che consente gli esiti descritti. 

Dunque unica strada politicamente e costituzionalmente percorribile, un accordo del Pd con il Pdl oppure con Grillo, o, addirittura con entrambi. 

 Con entrambi mi pare complicato. Se l’accordo fosse con il Pdl, forse Giuliano Amato avrebbe possibilità. Poi c’è Emma Bonino che potrebbe raccogliere consensi trasversali. Se l’accordo del Pd fosse con Grillo, mi pare che si stia facendo strada il nome di Rodotà… 

Ma Santoro ha lanciato Rodotà come premier, non come capo dello Stato… 

 Attenzione, qui la vera partita è chi farà il capo dello Stato nei prossimi sette anni, avendo in mano le sorti della politica e delle istituzioni italiane, e non di chi farà magari per qualche mese il capo di un esecutivo, che con questi numeri è destinato ad avere vita breve.