«Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia. E gli usi e costumi generali e pubblici, non sono, come ho detto, se non abitudini, e non sono seguiti che per liberissima volontà, determinata quasi unicamente dalla materiale assuefazione, dall’aver sempre fatta quella tal cosa, in quel tal modo, in quel tal tempo, dall’averla veduta fare ai maggiori, dall’essere sempre stata fatta, dal vederla fare agli altri, dal non curarsi o non pensare di fare altrimenti o di non farla (al che basterebbe il volere); e facendola del resto con pienissima indifferenza, senz’attaccarvi importanza alcuna, senza che l’animo né lo spirito nazionale, o qualunque, vi prenda alcuna parte, considerando per egualmente importante il farla che il tralasciarla o il contraffarle, non tralasciandola e non contraffacendole appunto perché nulla importa, e per lo più con disprezzo, e sovente, occorrendo con riso e scherno di quel tal uso o costume» (Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani).



Che cosa accade in Italia? Non se lo chiedono solo gli italiani consapevoli e pensanti, in questa giorni di Pasqua, che è la festa per eccellenza del cristiano e che sempre dovrebbe infonderci quella letizia simile a quella di coloro che riconobbero il Cristo risorto e non ebbero timore del miracolo che fonda la religione teologicamente superiore! Dovremo essere lieti e mai immemori di ciò. Ma con grande tristezza e mestizia non riusciamo a sollevarci dai nostri piedi piantati nella sabbia e sprofondiamo nella lucida consapevolezza che ciò a cui assistiamo in questi giorni è molto di più dell’incapacità di tre nuclei politici di trovare un accordo per il fatto che si son formate – grazie all’esistente legge elettorale – tre coalizioni l’un contro l’altra armate. E che, quindi, non si può ricorre alla formazione di un governo perché c’è discrasia tra Camera e Senato, ecc.



Ma vi è qualcosa di molto più profondo e terribilmente doloroso. Infatti, il centrodestra è quello che è. Partito semi-personale e semi-strutturato e “prendi tutto” in ogni caso. E questo oltre e non nonostante il dominio ideologico, prima che economico, di Silvio Berlusconi sul partito medesimo. È la moderazione italiana che continua e che ha sempre i soliti riti e miti: dal trasformismo al sovversivismo, alla violenta polemica contro lo Stato che non esiste o funziona come sempre con il suo volto nemico di chi produce e lavora.

Il centrosinistra è altra cosa: è la distruzione lenta e inesorabile di due grandi culture politiche ora giunte al loro disfacimento irrimediabile. È l’epifenomeno di un processo storico generale molto più complesso dell’amalgama del centrodestra, lo sappiamo: in definitiva, è il crogiuolo in cui sono confluite quelle due subculture potenti del tempo della Repubblica che si sfarinava di già prima del “golpe morbido” degli anni Novanta del Novecento. Gli anni in cui la triade capitale internazionale, capitale nazionale teso al rent seeking delle privatizzazioni senza liberalizzazioni (Da Rold insegna) e magistratura, tutte mossero all’attacco di ciò che si opponeva al disegno della conquista economica dell’Italia. Come ciò che accade oggi sotto i nostri occhi per via europea teutonicamente egemonica. La corruzione certo dilagante offrì l’estro, come del resto accadde e accade sempre in tutto il mondo.



Risparmiò, la triade, solo le alte cariche dello Stato perché le cuspidi della Pubblica amministrazione si adeguarono prontamente al nuovo padrone e risparmiarono altresì gli esponenti delle subculture comunista e della sinistra cattolica democristiana. Nobili tradizioni. Quella cattolica mutò rapidamente di pelle e divenne le più solerte sostenitrice della nuova dislocazione delle forze in campo, stringendo formidabili rapporti con il mondo bancario nominando alla sua testa i suoi rappresentanti più illustri, oltre a dominare il campo delle privatizzazioni in una inusuale alleanza con ciò che rimaneva della massoneria post-nittiana e post-beneduciana. I comunisti ebbero un travaglio più tormentato. Sconfissero sul campo, grazie alla cultura della fedeltà indiscussa al partito, quei settori della magistratura e degli interessi occulti che volevano trascinare anch’essi nel baratro della galera.

Si salvarono i vertici. Pagarono i secondi, anche se avevano il nome di Primo. Fu una prova del fuoco a cui si sottrassero coloro che successero al vecchio gruppo dirigente dopo la morte di Alessandro Natta. I giovani turchi dalemiani e veltroniani vestirono allora gli smoking del capitale finanziario e della liberalizzazione senza criterio tecnico o scientifico. Costruirono un’identità dimidiata del nuovo partito che veniva facendosi nella perdita dell’insediamento storico: ossia operai, artigiani, piccoli imprenditori, intellettuali di altissimo livello. A ciò sostituirono un insediamento nuovo e volatile, tenuto insieme non più dalla politica ma dalla propaganda, ossia dalla politica minorata: l’impiego pubblico, gli intellettuali della moda e dei rotocalchi alla Eco, i bancari e i banchieri, quei magistrati protesi a trasformare l’ordine giudiziario in potere. Chi ha recentemente scritto pagine fulminanti, in un’autocritica e una confessione impietosa è stato Luciano Violante, che fu uno dei sommi registi del golpe morbido di cui dicemmo. Un libro non letto e non discusso perché scomodamente indiscutibile.

Una cosa però accadde: tragica. Nel vecchio Pci mai nessun emiliano e toscano era mai assurto alla segreteria politica, alla cuspide del partito, dove regnavano da sempre torinesi e romani con qualche sarda e nobile inserzione. I toscani e gli emiliani erano le furerie addette ai carriaggi e alla manutenzione del sistema burocratico e amministrativo locale e nazionale. Esseri di serie B: ammirati ma distanziati dalla politica di largo respiro. Addetti al finanziamento e alla propaganda. Costoro, i rifiutati, erano considerati utili idioti – in senso tecnico, appunto -, quasi i componenti della cosiddetta sinistra indipendente, i quali dovevano solo e sempre loro fornire tecnici e pontieri a un partito operaista e di competenze umanistiche piuttosto che economiche. E dovevano offrire in primo luogo legittimazione borghese a un partito che tutto era meno che borghese.

La mutazione del Partito democratico nelle sua varie fasi ha rovesciato quel sistema di formazione della cuspide della classe politica ex comunista: ora a comandare sono gli esclusi di allora. Privi di logica politica in senso pieno ossia strategico, continuano ad amministrare piuttosto che a dirigere, anche quando a dirigere sono chiamati. La recente avventura bersaniana è una sorta di rappresentazione drammatica di tutto questo. L’antiberlusconismo è la loro sola e unica vis politica e polemica. Di qui il pragmatismo dei Bersani e dei gruppi che li circondano con un fare post-democristiano che solo Cossiga seppe bene descrivere. Una compagnia oggi impersonificata da Enrico Letta, pronto a sostituire il vecchio alleato, ma non a mutare il mood di un odio viscerale.

Il disegno è chiaro: scegliere il rapporto illusorio con Grillo per impedire la formazione di qualsivoglia governo che risolva la partita senza il ricorso alla galera per Berlusconi. La politica non era mai giunta così in basso: a negare se stessa e a vedersi sostituita da un ordine che si è fatto via via il potere più vertebrato della nazione. Così muore una grande cultura politica: il comunismo italiano. Ma l’Italia? Che ne è dell’Italia? Che ne è di quel partito “nuovo e nazionale” che costruì, con la Dc e con il Psi e con il Pri, la nostra meravigliosa nazione dopo la seconda guerra mondiale? I personalismi à la Guicciardini hanno distrutto l’ordito che la teneva unita spiritualmente.

Molti anni or sono il grande Hegel aveva compreso bene il nostro dramma, rileggendo e glorificando Macchiavelli, nelle sue pagine sulla Costituzione della Germania. Diceva che «le membra cancrenose (dell’ Italia) non possono esser curate con l’acqua di lavanda». Ora ci pare che nessuna cura sia possibile se non la trasformazione in profondità della meccanica dei partiti. Ma questo richiede una nuova cultura politica. Senza di essa nessun risorgimento economico sarà mai possibile. Come sempre è la cultura e non l’economia che fonda la società.