Il congelamento della crisi di governo da parte del Quirinale suona come la sirena di un estremo allarme. È una situazione inedita in un quadro non rassicurante. Vengono a coincidere, come “tempesta perfetta”, crisi economica, instabilità politica e discredito della classe politica. Dopo più di un anno di latitanza dei partiti permane un governo tecnico con una litigiosità inconcludente nelle Camere appena elette. 



È così che abbiamo da un lato un presidente incaricato che non ha la maggioranza e che però non vuole rinunciare e dall’altro il Capo dello Stato che non può sciogliere il Parlamento né può nominare un “governo del Presidente” in quanto sarebbe una legittimazione di due settimane essendo alla vigilia della nomina del nuovo presidente della Repubblica. Secondo Bersani la soluzione era rappresentata dalle dimissioni anticipate di Napolitano, il quale ha rifiutato temendo un nuovo Capo dello Stato eletto da Bersani e grillini con effetti di estremizzazione, degrado e paralisi. 



Con la nomina delle commissioni di “saggi” Giorgio Napolitano pensa di imporre un “tavolo” di ricerca di tregua e di intesa tra le principali forze politiche che attualmente collaborano nell’Unione europea e soprattutto di creare le condizioni di tornare alle urne, ma con una nuova legge elettorale. Per oltre un anno, infatti, Napolitano ha sollecitato la modifica del “porcellum” e Bersani ha rifiutato nella convinzione di poter più facilmente vincere e governare con l’attuale legge elettorale. Si è così creato il contesto più favorevole alla crescita dell’antipolitica e del successo di Beppe Grillo.



Inoltre Bersani in una settimana di consultazioni ha perso l’appoggio di Scelta civica, ha chiuso la porta al Pdl e non è riuscito ad aprire alcun spiraglio con il M5S. Dopo l’esplorazione di Bersani il panorama si presenta ancor più frantumato e avvelenato, né lo “streaming” con il piagnucoloso candidato premier che si sottoponeva alla gogna grillina ha aumentato la fiducia del Quirinale.

Siamo così di fronte alla contrapposizione tra Bersani, che si ritiene portatore del cambiamento ed unico legittimato a fare il governo, ed il Capo dello Stato che si erge a tutela della dignità istituzionale e della necessità di un governo che sia affidabile sulla scena internazionale.

Una contrapposizione aspra e pericolosa che – non può sfuggire – vede in campo due ex dirigenti del Pci e che sembra anche conseguenza di nodi non sciolti e di molta polvere nascosta sotto il tappeto negli ultimi venti anni.

Dopo la caduta del comunismo ed il cambio del nome sembrava naturale una evoluzione in rottura con ogni estremismo ed antagonismo. È invece rimasto – ed è ora peggiorato – nella dirigenza postcomunista il “complesso d’inferiorità” verso le contestazioni alla propria sinistra. 

Tanto più ci si deve allontanare dalle origini comuniste e tanto più si ha l’ansia di essere rilegittimati come “autenticamente socialisti”, come “diversi” e “non integrabili”. È un contrasto che già si vedeva “in nuce” nella riunione del vertice comunista del novembre 1989 con Giorgio Napolitano che sollecitava ad essere “parte integrante” dei partiti socialdemocratici europei e i seguaci di Occhetto che guardavano alla “sinistra sommersa e dispersa”, ai movimenti dell’estrema sinistra europea.

È così che Giorgio Napolitano, come Capo dello Stato, si è trovato Pierluigi Bersani che come futuro premier pretendeva di governare oggi, nell’attuale crisi nazionale e mondiale, il nostro Paese con Vendola e grillini dando priorità ai matrimoni gay e all’ineleggibilità del proprio rivale superato con lo 0,37 per cento e che è di nuovo in testa nei sondaggi. La governabilità di Bersani appariva agli occhi dell’inquilino del Quirinale un ministero “allo sbando”, capace di atti punitivi e simbolici e del tutto imprevedibile circa le riforme economiche e istituzionali non più rinviabili.

Al termine dell’incontro Bersani ha rifiutato di gettare la spugna ed avrebbe anzi sollecitato il Presidente della Repubblica a farsi da parte. 

La discesa in campo di Quagliariello e Violante insieme a Mauro e Giorgetti non sembra frutto di una disponibilità offerta come “fuoriusciti”, ma lascia sperare che si esca da quel che Vladimir Lenin definiva “malattia infantile”. La differenza tra bolscevichi e giacobini era appunto la categoria chiamata “negoziato”.