“E adesso?” quando alle 19 il presidente Laura Boldrini ha proclamato l’esito del quarto scrutinio il panico si è disegnato sulla faccia dei dirigenti democratici. Troppo catastrofico l’esito, la carica dei 101 franchi tiratori, tutti – nessuno escluso – di marca democratica era chiaro che avrebbe disintegrato gli equilibri interni. Nel giro di un’ora sono arrivate due dimissioni polemiche per la segreteria, quelle di Rosy Bindi dalla presidenza dell’assemblea nazionale, e soprattutto quelle di Prodi. E quel “chi mi ha portato sin qui si assuma le proprie responsabilità” è suonato come la condanna definitiva per Pier Luigi Bersani, che ha deciso di gettare la spugna, come Arnaldo Forlani nel 1992.
“E adesso?”, si sono chiesti gli uomini più vicini all’ormai ex segretario PD. Adesso tentare di incollare i cocci è davvero dura. Dopo aver bruciato in sole 24 ore due figure chiave, due fondatori del PD, Marini e Prodi, adesso i democratici si prendono una pausa di riflessione di un giorno alla ricerca di un nome che sia il meno divisivo possibile, perché ormai neppure gli avversari si fidano più di loro, dal momento che nessuno può garantire sulla tenuta di qualsiasi operazione politica.
Un PD lacerato si trova letteralmente sotto assedio. Furente è l’alleato Vendola, che vorrebbe un’immediata convergenza sul candidato del Movimento 5 Stelle, Stefano Rodotà, che in quarta votazione ha raccolto 51 consensi in più rispetto al numero dei grandi elettori grillini. Consensi tutti di marca democrat, dal momento che SEL ha fatto sapere di avere contrassegnato i propri voti con un inequivocabile “R. Prodi”. Il problema, come ha candidamente ammesso su Twitter il direttore di “Europa” Stefano Menichini “su Rodotà andrebbero forse la metà dei voti che sono andati oggi su Prodi”.
Insomma, il PD ha quasi perso il diritto di fare proposte, e deve sperare che gli altri gliene facciano di praticabili. Uno stato di cose che rende oggettivamente difficoltosa la soluzione interna più ovvia, cioè il nome di Massimo D’Alema, sospettato di essere fra i mandanti del siluramento di Prodi. Se il primo premier di sinistra della storia italiana ha il pregio di poter riallacciare il dialogo con il centrodestra, in sé contiene anche il rischio di scatenare non meno divisioni interne rispetto a quelle che si sono registrate su Marini e su Prodi. E un pregiudizio non troppo dissimile frena l’ipotesi parallela, quella di Giuliano Amato, che non è certo sentito come interprete ideale di una nuova stagione politica. Non si può dimenticare la pressione della base in rivolta e della rete, che su D’Alema, ed ancor più su Amato, moltiplicherebbe gli strali e il dileggio.
In una situazione di profonda lacerazione per il PD potrebbe diventare meno pericoloso ragionare su ipotesi esterne, e magari dal profilo istituzionale. Una candidatura che potrebbe riprendere quota è quella del presidente del Senato Piero Grasso. Due i punti a suo favore: il curriculum di magistrato antimafia e il lasciar libera – in caso di trasloco al Quirinale – una poltrona come quella della presidenza del Senato, che potrebbe andare al PDL.
Per la verità, il nome che circola con sempre maggiore insistenza è quello del ministro dell’Interno uscente, Anna Maria Cancellieri. Ha fatto bene al Viminale, ha l’esperienza di prefetto e di commissario in alcune delicate situazioni come Bologna e Parma, ed in più è pure donna. Mario Monti sta lentamente costruendo intorno a lei il consenso. Ha prima preteso che Scelta civica facesse quadrato, ottenendo nove voti in più di quelli su cui sulla carta poteva contare. Poi ha presentato la designazione a Berlusconi, ottenendo un via libera condizionato al consenso del PD. Ora la palla è tornata nel campo di Bersani e dei suoi, che dovranno decidere in fretta. Il rischio per loro è di trovarsi stretti fra due fuochi: una scelta secca in un duello fra Rodotà e Cancellieri manderebbe definitivamente in pezzi quel che resta del partito di maggioranza relativa.
Qualunque sia l’esito della corsa al Quirinale, il peggio per il PD deve ancora venire. Le dimissioni di Bersani accelerano, infatti, la corsa per il ricambio al vertice, ma il principale pretendente, Matteo Renzi, esce da questo passaggio praticamente dimezzato: ha sponsorizzato, anzi quasi preteso, la candidatura di Romano Prodi, ma ha dimostrato di non tenere affatto in pugno il partito, che rischia seriamente nei prossimi mesi una (o più) scissioni.