La notizia, quasi scontata, è piombata dentro alla crisi politica italiana, aggravandola ulteriormente, alle dieci di sera, dopo la debacle della candidatura di Romano Prodi nel quarto scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica. Mentre i “grandi elettori” del Pd affluivano al Teatro Capranica per l’ennesima riunione decisiva, arrivavano prima le dimissioni del presidente Rosy Bindi, con una nota anche polemica sulla linea del partito (chissà lei dove stava), e poi quelle del segretario Pier Luigi Bersani. La riunione durava circa un quarto d’ora, dove Bersani, annunciando le dimissioni dopo “il voto per il Colle”, si riservava un amaro sfogo: uno su quattro di tutti voi ha tradito. Due giorni di passione, di speranze, di illusioni, di grande tristezza per l’ex segretario. Prima la “buona novità” di Franco Marini, naufragata nel giro di 12 ore; poi la virata di 180 gradi su Romano Prodi, mentre stazionava niente meno che nel Mali per conto dell’Onu, anche quella affondata quasi con il clangore documentato dal risultato del voto, sfiancato da oltre cento “franchi tiratori”.
Si è compreso in quel momento, guardando i volti dei dirigenti del Pd che uscivano da Montecitorio, ascoltando la dichiarazione di Prodi (“Qualcuno deve assumersi la responsabilità”), che il percorso di Bersani era arrivato al termine. Ma forse le dimissioni rappresentano qualche cosa di più che la fine di una segreteria. Probabilmente si entra in una fase in cui si devono fare i “conti con la storia” e con quello che molti hanno chiamato “l’equivoco” del Pd, oppure “non il partito democratico, ma solamente un comitato elettorale”.
A conti fatti, la somma tra i post-comunisti e i post-democristiani di sinistra, emersa in questo anni di “seconda repubblica”, si è rivelata solo un surrogato, poco convincente, del vecchio catto-comunismo italiano. Una sorta di “ircocervo” sopravvissuto, che non è mai riuscito a convincere l’elettorato italiano e a incidere politicamente. E’ come se dopo la famosa “svolta della Bolognina” per il vecchio Pci e dopo la “liquidazione” di quello che restava della Dc, siano confluiti insieme più i difetti che i pregi di due grandi tradizioni storico-politiche. Senza alcuna innovazione necessaria ad affrontare il presente e il futuro della società italiana. Ancora nel momento della “svolta della Bolognina”, il vecchio Pci cambiò nome, fece l’ennesima “svolta”, ma si guardò bene dal fare una profonda revisione come molti dirigenti del vecchio Pci (Napolitano, Macaluso, Chiaromonte, Cervetti) reclamavano da anni.
La prima “revisione” profonda la chiese Giorgio Amendola nel comitato centrale del novembre 1961, sfidando Palmiro Togliatti. Amendola fu rimosso dall’incarico all’importante ufficio dell’Organizzazione. Poi Amendola la ribadì con un articolo del 17 ottobre del 1964 su “Rinascita”, dove proponeva l’unificazione di tutte le forze di sinistra nel “superamento del leninismo”. Da quel momento nacque nel Pci la “questione Amendola”, che si concluderà drammaticamente nel comitato centrale del Pci del novembre 1979, quando il “vecchio e solitario leone”, figlio del grande leader liberaldemocratico ucciso dal fascismo, Giovanni Amendola, condusse una battaglia solitaria contro l’estremismo di sinistra, presente anche nel sindacato. Vecchio e malato (morirà dopo pochi mesi, probabilmente dopo aver scritto una lettera di dimissioni dalla Direzione del partito), Amendola restò solo, aggredito letteralmente da Enrico Berlinguer, e dimenticato anche da uomini come lo stesso Giorgio Napolitano e Luciano Lama, che non si distinsero in quel momento per coraggio e coerenza.



Il tutto si risolse, ideologicamente, nella scelta della “questione morale” agitata nell’ultimo Pci berlingueriano e poi ripresa come “bandiera da sventolare” nel postcomunismo, insieme a un generico anticapitalismo (pur con qualche “strizzatina d’occhio” alla finanza in voga nel periodo clintoniano) e a una retorica stucchevole sulla trasparenza e l’anti-inciucio. Dice oggi Massimo Cacciari: seminando vento, si raccoglie tempesta. Il postcomunismo chiedeva trasparenza? E’ arrivato uno come Grillo con i suoi ragazzi cresciuti nel “semplicismo”, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia, che chiedono ancora più “trasparenza”. Scelte politiche? Accordi per riformare il sistema? Politiche economiche di crescita? Strategie contro il dilagare del capitale finanziario? Le risposte sono solo state confuse e quasi da prendere in secondo ordine.
Guardiamo il percorso di Bersani in questo ultimo anno e mezzo. Bersani fa parte del personale politico cresciuto nella pratica del riformismo emiliano, coperto spesso da una demagogia quasi staliniana come riferimento lontano e inattuabile. Il meccanismo ha sempre funzionato fin dai tempi del mitico sindaco di Bologna, Giuseppe Dozza. Vi è da aggiungere che Stalin fortunatamente non c’è più e il riferimento ideologico non ha mai incrinato la pratica riformista.
Bersani, con ben altri riferimenti ideologici, ha continuato in altro periodo questa tradizione. Fuori dai suoi “confini emiliani”, Bersani ha poi sposato ed è stato anche “sponsorizzato” dal “partito Repubblica”, che predica da anni l’ossessione (ideologica o per concreti interessi?) verso alcuni personaggi della politica italiana. Il matrimonio è durato per un po’ di mesi, ma in questo ultimo periodo è saltato.
Ma in tutto questo periodo Bersani che cosa ha fatto ? Per un anno e mezzo ha costruito, mentre Silvio Berlusconi era “politicamente morto”, non un centrosinistra, ma uno schieramento di sinistra. dove Niki Vendola con la sua “Sel” aveva un peso strategico decisivo nel cosiddetto centrosinistra. Si è cullato su “primarie” che assomigliavano più a marketing politico che a un reale dibattito politico, pensando di vincere “in carrozza” le elezioni. Alla fine, di fatto ha perso. Di fatto, con il risultato elettorale del 24 febbraio, è l’unico vero sconfitto.
Poi ha insistito per due mesi a inseguire i voti “grillini” per fare un governo di minoranza, invocando una sorta di “moralizzazione della vita pubblica” e ubbidendo a un riflesso condizionato del vecchio Pci: nessun nemico a sinistra. Soprattutto, in questi tempi, sulla “questione morale”. Il risultato, alla fine, era inevitabile, perché la storia presenta sempre i suoi conti e la politica non ammette “vuoti”, che non possono essere riempiti da una generica moralizzazione, da una generica battaglia solo contro la “casta” politica, senza tenere conto della realtà e delle forze in campo. Così facendo Pier Luigi Bersani, fuori dai confini emiliani, ha dimenticato tutto il suo pragmatismo riformista.
Detto per inciso, questa non è affatto una buona notizia: per il futuro del Paese e per il futuro di una sinistra “non lunare” anche in Italia.

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