La rielezione di Giorgio Napolitano è frutto di un rinsavimento in extremis di fronte al rischio, ormai concreto, di eleggere un presidente della Repubblica “per caso”. Di certo la rielezione non appare un grande successo né per i fautori della “rottamazione” (la minoranza del Pd) né per chi aveva invitato il capo dello Stato a dimissioni anticipate (la maggioranza del Pd). Non sembra quindi esatto vedere nella permanenza di Giorgio Napolitano al Quirinale una sorta di ‘prorogatio’ in quanto essa sembra prefigurare una possibile inversione di tendenza. L’onda lunga della rottamazione ha di fronte la sabbia e l’antiberlusconismo prospetta una resa incondizionata a Beppe Grillo. In che senso?



Il primo caso è una considerazione critica del “nuovismo”. Il “popolo del web” e il “popolo delle primarie” hanno partorito una platea di parlamentari “per caso” estremamente fragile. Quelli di Grillo si aggirano come turisti in attesa di istruzioni (dal web? da Grillo? ma mai dalla propria testa) e quelli del Pd sono già bollati al proprio interno, per un loro quarto, come “ladri”. Più che espressione di innovazione, il nuovismo sembra frutto di un’altra cosa che si chiama evasione ovvero fuga dalla realtà. Nella “cultura del lavoro” in cui si è formato Giorgio Napolitano il rinnovamento è invece una costruzione, un edificio che è partorito da un progetto (frutto di calcoli, risorse faticosamente accumulate, valutazioni di impatto nazionale e sociale) e da lavoro (frutto di esperienza, tempo e sacrificio). Il nuovo per il nuovo, il nuovo come gusto della sorpresa, come negazione di professionalità e di chiari e concreti obiettivi contrasta con una mentalità (che non è solo quella di Napolitano) in cui si diventava deputati a 27 anni, ma per una “scelta di vita” fatta di studio e combattimento e non di “cazzeggio” da “folla solitaria”. Il nuovismo sembra cioè rientrare in quella “irrazionalità” nell’era della “globalizzazione mediatica” che vede passare la sinistra – come osserva il patriarca della storiografia marxista, Eric Hobsbawm (che nel ’76 scrisse un libro-intervista sul Pci con Giorgio Napolitano) – dai “grandi intellettuali di protesta” alle “celebrità”, dai Sartre e Merlau Ponty ai Brian Eno e Bono ovvero, nel nostro caso, da Alberto Moravia e Luchino Visconti ai (molto più noiosi ed effimeri) Roberto Saviano e Adriano Celentano.



Il secondo caso è quello di un “cambiamento” tratteggiato nascondendo molta polvere del passato sotto il tappeto. Pierluigi Bersani ha fallito perché si è posto davanti al Movimento 5 Stelle come la Federazione giovanile comunista davanti al Movimento Studentesco. 

È scattato il “complesso d’inferiorità” verso l’estremismo al motto di “nessun nemico a sinistra”; è riemerso l’“ultimo” – e non migliore – Berlinguer, quello che dopo aver chiamato “quattro untorelli” gli estremisti poi li ha chiamati “nostri figli” e che attaccava i “partiti” guardando ai “movimenti”, il Berlinguer che affossava e ripudiava la esperienza del governo delle “larghe intese” per fronteggiare crisi economica e terrorismo. È invece proprio il precedente dell’appoggio del Pci ai governi di “solidarietà democratica” negli anni 70 che Giorgio Napolitano aveva in queste settimane additato al Pd come esempio da seguire, mentre Bersani preferiva avere come consigliere lo storico Miguel Gotor che pubblicava in quei giorni uno scritto in cui la requisitoria di Berlinguer contro i partiti e la politica delle alleanze (a suo tempo, nel 1981, contestata da Napolitano subendo per rappresaglia l’estromissione dalla segreteria nazionale del Pci) era definita “unica strada percorribile”. 



La fuoriuscita dall’antiberlusconismo è una esigenza di fondo. Esso ha irrigidito, senza via di scampo, le possibilità di azione del Pd nel momento in cui era invece chiamato dal voto a svolgere un ruolo di guida nazionale. Ha vanificato il vantaggio conquistato. Se fosse un problema legato alla persona di Silvio Berlusconi sarebbe solo un errore o comunque un’esagerazione temporanea, punto e basta. Ma l’antiberlusconismo ovvero lo spirito di crociata in cui si svolgono, ad esempio, le primarie con un mandato sovreccitato, “sanguinario”, rappresenta una malattia infantile incurabile. Anche uscito di scena Berlusconi, comunque, chiunque si metta alla guida di uno schieramento avversario dopo pochi giorni, per una sinistra in balìa di comici, magistrati e giornalisti militanti (e non di un gruppo dirigente con autonomia di consenso e di credibilità) sarà sempre un nemico intrattabile: ridicolo-corrotto-fascista. Siamo sempre fermi ad una propaganda di sinistra degli anni Venti ovvero un nuovismo che ragiona come cento anni or sono. Una sinistra esaltata e perdente.

La rielezione di Napolitano può essere quindi una salutare inversione di tendenza a favore di un Pd che ritorni in se stesso o che, quantomeno, ritorni al Togliatti che esclamava “Via i pagliacci dal terreno della lotta!”. Oggi se si andasse alle elezioni è su Beppe Grillo – e non sul Pd − che si concentrerebbe, in nome dell’antiberlusconismo, il “voto utile” di sinistra. Forse quella dell’“ultimo Berlinguer” è meglio non continuare a considerarla “unica strada percorribile”.