Purtroppo non c’è un abate Faria che può svelare la mappa del tesoro sotto una caverna dell’Isola di Montecristo, anche perché ormai, vicino a quelle parti, resta solo la carcassa del “Concordia” del comandante Schettino. Siamo invece nelle mani di un signore di quasi 88 anni, con una grande storia e cultura politica (senza paragoni rispetto al “nuovismo” dilagante), che deve rimettere in sesto una “nave” che si è auto-silurata e che sta ancora facendo rotta vicino a scogliere pericolose e insidiose.



Giorgio Napolitano sceglierà il governo in pochi giorni, dopo aver frustato, nel giorno del suo giuramento davanti alle Camere, forze politiche litigiose al limite dell’irresponsabilità, sostanzialmente “sorde” prima verso ogni riforma e poi verso ogni soluzione ragionevole, e dopo aver ricordato, a tutti, quali sono i principi fondamentali di una democrazia rappresentativa che non possono essere sostituiti dall’ormai mitizzata “Rete”. Ma il discorso rivela anche quali saranno le linee su cui si muoverà il presidente della Repubblica. Quale scenario si presenta nelle prossime ore, nelle imminenti consultazioni che saranno condotte a “tambur battente”?



In questo caso occorre fare un passo indietro, ritornare al “tonfo” di Romano Prodi nello scrutinio per il Quirinale, alla successiva esplosione o implosione del Partito democratico e al “pellegrinaggio” dei leader dei partiti fatto da Napolitano perché si ricandidasse per un secondo mandato.

È probabile che Napolitano, pur lusingato da questo disperato “soccorso” richiestogli, abbia dettato dei punti ben precisi per accettare la rielezione. Sarà un “governo presidenziale”, un “governo di scopo”, lo si può chiamare come si vuole, ma non può prescindere da una partecipazione di corresponsabilità generale, per non usare i termini ostici ai guru della “casta”, cioè governo delle “larghe intese” o dell’“inciucio” tra Pdl e Pd. Alla fine, lo vogliano o non lo vogliano i “puri”, il nuovo governo sarà condiviso da presenze politiche delle forze più rappresentate in Parlamento. Su questo punto il presidente deve essere stato tassativo, perché altrimenti lo “stallo fatale”, di Camere con nessuna maggioranza, porta diritto alle urne, a nuove elezioni, con una situazione economica drammatica e una situazione sociale esplosiva.



In sostanza, si faccia certamente una grande operazione di maquillage della politica, si riducano i parlamentari, si colpiscano gli sprechi e la corruzione sui compensi ordinari e straordinari, si elimini la buvette, il ristorante, il barbiere e quanto altro è necessario, ma allo stesso tempo si facciano scelte politiche nell’interesse del Paese ormai frastornato, attraverso le intese necessarie.

Non è impossibile che lo stesso Napolitano abbia in mente già un governo da sottoporre ai partiti. Questo potrebbe anche essere la spiegazione della frase “forte” che Napolitano ha quasi scandito in Parlamento: se sarete ancora “sordi”, ne trarrò le dovute conseguenze. In altri termini, se continuate a fare “pasticci e pasticcetti”, a porre veti, a essere litigiosi e non ragionevolmente costruttivi vi mando alle urne e io me ne vado definitivamente a casa mia, non al Quirinale, a godermi la pensione.

È possibile quindi che queste consultazioni potrebbero trasformarsi in un copione rovesciato, in un contributo dei partiti a “correggere” il governo che ha in mente il presidente, con un programma che può essere ripreso dal lavoro fatto dai “saggi” e che ha dei punti ben precisi e ormai ben noti sulla necessità di interventi di carattere economico e sociale e di riforme istituzionali urgenti come quella della legge elettorale.

Scontato quindi uno scenario da grandi intese, di carattere politico, magari con delle presenze “tecniche” di alto profilo istituzionale. Ma uscendo dal generico, quale potrebbero essere i candidati credibili che ha in mente il Napolitano per condurre il Governo? 

Qui si affacciano tre opzioni, che hanno una variante decisiva nello “stato di agitazione permanente” che esiste al momento nel Partito democratico. È probabile che il candidato più gettonato sia il non “popolarissimo” Giuliano Amato, il “dottor sottile”, bollato dai “grillini” come il “tesoriere di Craxi” (autentico scoop del retroterra genovese probabilmente), inviso ai leghisti come primo “interventista sui conti correnti degli italiani”. Amato è apprezzato da Napolitano, perché lo ritiene ideologicamente un “apolide” affine ai suoi sentimenti. Ma perché Amato guadagni una solida maggioranza alle Camere occorre che il tasso di litigiosità interna nel Pd sia a un “livello di controllo”, quasi come il mitico spread. La lega Nord, magari per un senso di responsabilità, potrebbe astenersi.

La seconda opzione potrebbe essere quella del giovane Enrico Letta, vicesegretario dimissionario del Pd, certamente più realista e ragionevole del “caterpillar Bersani”, andato poi a schiantarsi nell’inseguimento dei “grillini” e sostanzialmente ultra-sordo a qualsiasi dialogo con Berlusconi. Pier Luigi Bersani ha di fatto tediato l’Italia per due mesi con la politica del “doppio binario”, con il “tavolo delle istituzioni” e con quello del Governo. Un soliloquio rumoroso che ha alla fine prodotto il cortocircuito del dopo-voto su Romano Prodi al Quirinale.

Ma anche per Enrico Letta c’è il problema dello “spread di litigiosità” nel Pd. Non è un caso che Rosy Bindi, annusata l’aria, abbia subito concesso a Maria Latella su Sky un’intervista dove si è dichiarata contraria alla nomina di Enrico Letta. Chissà se Rosy Bindi ha avuto un ripensamento dopo il discorso di Giorgio Napolitano. Se così non fosse, si riaprirebbe, anche di fronte alla sequenza di dichiarazioni di “leader e leaderini” del Pd, una conflittualità quasi incontrollabile.

Vedremo oggi, nella riunione del Partito democratico, come si sceglierà la delegazione che dovrà andare a fare le consultazioni con Napolitano. Ma è evidente che l’andamento del dibattito (chiamiamolo così) nel Pd condizionerà la nomina del prossimo presidente del Consiglio. Se dovesse prevalere un “istinto suicida”, fino a una grave rottura del partito, è allora possibile che si passi a un’altra opzione, a un personaggio che sappia tenere insieme in definitiva il nucleo centrale del Pd. E il personaggio in questione, in questo caso, non è il “nuovista rottamatotore”, Matteo Renzi, ma il ben più scafato e politico Massimo D’Alema, che proprio ieri ha messo i puntini sulle “i” sul modo con cui si è candidato Prodi al Quirinale.

Partita quindi tutta da vedere e da analizzare. Immaginando infine che una quarta possibile opzione, quella di un ritorno alle urne e di un nuovo abbandono di Napolitano, resti solo un monito, un’ipotesi a cui non si debba ricorrere.

Si tranquillizzino i “puri” di tutte le stagioni. Si ritornerà a votare presto, ma possibilmente in una situazione meno concitata e magari con una legge elettorale meno “complicata”, tanto per usare un eufemismo.