Dopo i giorni della protesta solo anagraficamente giovanile, lanciata all’assalto delle istituzioni in nome di slogan vecchi e ritriti, irrompe nel Palazzo un giovane di 88 anni. Giorgio Napolitano resta al suo posto, contro la volontà della famiglia, del medico e contro se stesso, avendo a lungo argomentato sull’inopportunità per un capo dello Stato di andare oltre il settennato. Ma nelle sue parole non c’è un briciolo di rassegnazione o di malavoglia. “Giacché ci sono e mi ci avete costretto qui da oggi si fa sul serio” ha detto in sostanza, menando fendenti ai partiti che, come in uno strano gioco sado-maso, più lui picchiava più loro applaudivano.
In Transatlantico si respirava un’atmosfera eccezionale, ieri sera, dopo la mezz’ora abbondante di discorso del “nuovo” capo dello Stato: c’era nei volti di tanti parlamentari la sensazione di aver partecipato a un momento in grado di cambiare il corso degli eventi, in grado di fare storia, si direbbe, se non ci fosse il timore di dare troppa enfasi.
Le parole che tanti aspettavano e che nessuno aveva sin qui avuto la forza e l’autorevolezza di pronunciare, erano finalmente risuonate. Parole non solo in grado di dare un giudizio drastico su quanto accaduto ma, proprio in virtù di questo, in grado anche di tracciare una strada per restituire fiducia e speranza al Parlamento e, attraverso di esso, a un Paese smarrito, avvitato in una crisi e guidato da una politica che mostra di non avere le energie prima ancora che la ricetta per uscirne.
La protesta grillina del giorno prima, la marcia su Roma culminata nella meno eversiva passeggiata ai Fori imperiali non lascia traccia dietro di se, e per fortuna, visto che se portata in fondo poteva lasciare solo macerie. Il discorso di Napolitano, invece, riconsegna un giudizio compiuto sugli eventi ultimi e degli ultimi mesi e indica una strada da seguire nella quale tutti gli uomini di buona volontà hanno la possibilità di inserirsi, dando il loro contributo. Rievocato esplicitamente e lungamente il discorso di Rimini 2011, da tutti ritenuto come la base ideale e programmatica delle larghe intese, ne trae una riflessione di una razionalità stringente: se nessun partito ha avuto i numeri per governare da solo è necessario ora collaborare, come avviene in tutti i Paesi europei, Gran Bretagna compresa da qualche tempo, nei quali ci sono alleanze fra partiti diversi, in taluni casi persino contrapposti. Napolitano ribalta così le accuse contro la legge elettorale: da tutti indicata come la causa dell’ingovernabilità, lui la presenta invece come la scaturigine di una mal riposta pretesa di governabilità, a partire dal voler far uso di un «abnorme» premio di maggioranza. Premio che è stato la ragione – denuncia, prendendosela soprattutto col Pd – che ha portato prima a far cadere l’accordo sulla legge elettorale da parte del partito che più di altri sperava di poterne approfittare, e poi lo stesso partito beneficiario a dilaniarsi, un po’ come accade in quelle famiglie colpite da improvviso benessere per un lascito ereditario non sudato che si rivela la loro maledizione. Non è quindi la composizione del Parlamento a ben vedere l’origine dell’ingovernabilità, ma la pretesa messa in campo da tutti (non ne è stata immune nemmeno Scelta civica) di chiedere i voti per fare poi da soli. Un mostrare i muscoli davanti al proprio elettorato, che poi presenta il conto attraverso la micidiale Rete, a bloccare ritorni di realismo che renderebbero necessario quanto fino ieri si aborriva.
Non sono un orrore le intese per le riforme, ha detto invece Napolitano, dicendo a chiare lettere che, o si cambia registro, o se la sua disponibilità si dovesse rivelare improduttiva non esiterebbe stavolta a fare un passo indietro, denunciando al Paese l’improduttività della politica e dei partiti che lo hanno implorato. Le facce preoccupate dei principali sabotatori, nel Pd, delle larghe intese su Franco Marini al Quirinale la dicevano lunga ieri, su una prospettiva che si riaffaccia ora più forte di quanto l’elezione dell’ex segretario della Cisl sul Colle avrebbe potuto consentire. Ed è patetico questo tentativo di aggrapparsi per Palazzo Chigi all’ipotesi Matteo Renzi, altro grande sconfitto di questi drammatici giorni di Montecitorio, come a non rassegnarsi al fatto che il Pd con i suoi comportamenti ha perso ogni centralità nello scacchiere, dovendosi aspettare ora le autonome valutazioni del capo dello Stato. Il quale verosimilmente sta riflettendo fra una soluzione strettamente tecnica (sia pur supportata da politici) come Giuliano Amato, e una più politica come Enrico Letta. Una soluzione, quest’ultima, che premierebbe il partito di maggioranza relativa con un uomo legato al segretario dimissionario, ma da sempre più incline alla collaborazione e vicinissimo all’impostazione di Napolitano.
Tuttavia lo stato attuale dei partiti e la capacità mostrata, soprattutto dal Pd, di sabotare i propri compagni di partito invece di sostenerli, sembrerebbero mettere in pole position l’ex premier socialista, che Napolitano ha voluto tenere in caldo fin dalla nomina dei Saggi, tenendolo fuori dalle 10 designazioni. Da quelli si partirà, dai loro testi e qualcuno fra loro sarà anche chiamato, da ministro, ad occuparsi di alcuni dossier. Hanno lavorato bene i Saggi, ha dato atto Napolitano, e se anche fosse vero che non hanno inventato niente di nuovo come dice chi li critica, a maggior ragione non resta che passare dalle parole ai fatti, visto che sulle parole si è d’accordo da tempo, e i testi giacevano già da tempo nei cassetti, per amore di guerriglia politica e «orrore» verso le intese.
Non tema il Pd ora l’abbandono di quelli che hanno bruciato le tessere in piazza, dalla perdita eventuale di persone che non colgono lo spread fra Rodotà e Napolitano (con tutto il rispetto per il primo) non avranno di che dolersi per il futuro, e anzi si può aprire una strada di ragionevolezza, di riformismo, che può fare solo bene al partito del dimissionario Bersani. Perché la Rete, l’ha detto Napolitano rivolto ai Grillini (ma pari pari il discorso può essere spostato sui Democratici) non può diventare, da prezioso strumento di comunicazione, la dittatura dell’emotività, rinunciando al ruolo dei partiti e soprattutto al ruolo guida di classi dirigenti messe al guinzaglio dai twittatori e dai maniaci di Facebook.
Così Silvio Berlusconi, indossati di nuovo i panni dello statista, farebbe bene a non tornare indietro. Perché l’impressione ora è che, fra i due grandi partiti, si giochi una gara proiettata sul futuro, sulla capacità riformista che delineerà quale sarà la coalizione in grado di offrire, in futuro, una prospettiva stabile al Paese.
A partire da un discorso, quello di Napolitano, che suscita entusiasmo e restituisce speranza a tutti gli uomini di buona volontà e che lascia intravedere una via d’uscita benigna per la nostra drammatica crisi, rilanciando quell’idea di bene comune così cara soprattutto ai cattolici. Resta solo il rammarico di dover riscontrare che in altri tempi bui attraversati dal nostro Paese furono uomini politici del calibro di De Gasperi e Moro, ispirati dalla dottrina sociale della Chiesa, i portatori di istanze del genere. Mentre a ben vedere il ventennio da cui faticosamente usciamo ha visto i cattolici troppo spesso nel ruolo di comprimari benedicenti di impostazioni guerreggianti fra loro, rivelatesi poi improduttive sul piano delle grandi riforme. Stavolta c’è stato bisogno di un riformista post comunista e non credente per tentare di aprire una fase nuova, necessaria per non finire nel burrone. C’è voluto il sacrificio di un 88enne di belle speranze: “Voi la chiamate Provvidenza, io più semplicemente fortuna, ma io direi di non sfidarla”, diceva, qualche mese ad Andrea Olivero e Mario Mauro che continuavano a chiedergli la disponibilità alla rielezione, opponendo le stringenti ragioni dell’età. Poi ci ha dovuto ripensare e chiunque abbia un’idea politica ispirata al bene comune ha ora il dovere di mettere da parte la propaganda elettorale e fare sul serio. Le migliori proposte e le migliori idee sono quelle che, per fascino e ragionevolezza, sono in grado di convincere tutti, o quante più persone possibile, non quelle che eccitano la piazza, e solo una parte, con spirito distruttivo. Col rischio di avvitare il Paese in un vortice di inconcludenza sulla cinica spinta degli interessi di parte e delle ambizioni personali. La lezione – più che mai giovanile – di Giorgio Napolitano sta tutta qui.