Neanche un esercito di nemici armati della peggiore intenzioni, neppure un’inverosimile alleanza tra Grillo e Berlusconi, avrebbero disastrato il Pd al punto in cui è riuscito a disastrarsi da solo. Tutti, nel partito, concordano almeno su una cosa: le lotte intestine di questi giorni, sfociate nel siluramento di Marini e Prodi, sono state tremendi atti lesionistici. Come è stato possibile tutto questo? O, meglio, cosa c’è che non va nella sinistra italiana? Perché, a un passo dalla vittoria, si è sempre  sfasciata? Lo abbiamo chiesto a Roberto Chiarini, professore di Storia contemporanea nell’Università Statale di Milano.



Ormai sembra chiaro che il Pd rappresenta un’operazione incompiuta.

Se si trattasse di un’operazione incompiuta, ci sarebbe ancora speranza: significherebbe, infatti, che per lo meno c’è qualcosa che aspetta di esser compiuto; qui, invece, stiamo parlando di un’operazione impossibile, il rigetto della quale si è manifestato nei comportamenti inequivocabili di questi giorni. Se è nei momenti di eccezionalità che si conoscono i limiti e i punti di forza di un partito, è chiaro che il Pd può considerarsi pressoché finito.



Perché la fusione tra Ds e Margherita fu un’operazione impossibile?

Anzitutto, per una ragione anagrafica: i singoli dirigenti dei due partiti, all’epoca della fusione, avevano alle spalle già 20-30 o anche 40 anni di militanza nei rispettivi partiti. Quando l’identità è sedimentata a tal punto, non è pensabile metterla da parte tanto facilmente. Tanto più a livello collettivo. Va anche detto che la fusione non è avvenuta in seguito ad un’elaborazione culturale che mettesse a frutto il meglio del passato. Al contrario, le due storie sono state mantenute in vita così com’erano, senza alcuna modifica o cambiamento. Ma la confusione non si è fermata qui.



No?

Si è pensato di poter dare vita a un partito in nome delle pagine positive in cui la cultura cattolico-democratica e quella comunista hanno collaborato. E, come se non bastasse, hanno iniziato, tutti, indiscriminatamente, ad appropriarsi dell’eredità storica di De Gasperi, senza sapere che il cattolicesimo sociale e il comunismo lo hanno sempre combattuto aspramente.

Veltroni sembrava crederci nel progetto del Pd.

Bisogna dargli atto che, effettivamente, ci credeva. Ma rimase incastrato in operazioni funambolesche. Ci si chiede come gli sia potuto passare per la testa di affermare di non essere mai stato comunista. Sarebbe risultato molto più onesto se avesse affermato che, all’interno della gamma di comunismi a disposizione, scelse quello più orientato verso la socialdemocrazia. Bisogna, poi, ammettere che gli mancarono il coraggio e le doti per compiere già allora quella rottamazione che avrebbe, forse, reso possibile la realizzazione del progetto.

 

Con la segreteria di Bersani, come si è evoluto il processo?

Si è, probabilmente, ancor più involuto. Di fatto, il vecchio Pds ha preso il sopravvento sul resto del partito. Gli ex popolari ed ex Dc hanno iniziato a sentirsi trattati come “figli di nessuno”. Questo, per esempio, è stato alla base dell’aspro dibattito circa l’ipotesi di avere un ex comunista a Palazzo Chigi ma, come compensazione, un popolare al Quirinale.

 

Un altro processo mai giunto a compimento fu quello della svolta della Bolognina, quando il Pd prese il nome di Pds.

Anche in tal caso, non si trattò di una svolta vera e propria. Il partito non evolse in senso socialdemocratico, ma, semplicemente, assunse un altro nome. Vennero abbandonati alcuni termini e, per esempio, si iniziò ad utilizzare la generica categoria del riformista senza rendersi conto che si trattava di una connotazione talmente vaga da non poter generare alcuna unità. 

 

Perché la svolta non fu tale?

Anche in quel caso, l’età anagrafica dei dirigenti e la loro sedimentazione culturale impedirono qualunque reale cambiamento.

 

Ora cosa accadrà?

O il nuovo gruppo dirigente avrà la forza di legare le diverse anime con un patto indissolubile, ma la vedo dura, o ci sarà una scissione; difficile prevede cosa accadrà, dato che quelle stiamo cercando di descrivere sono dinamiche in divenire. In ogni caso, nel partito potrebbero prevalere l’anima socialdemocratica e dirigenti quali Fabrizio Barca. Le distinzioni con i popolari, tuttavia, si polarizzerebbero e, questi ultimi, probabilmente, andrebbero altrove. I vari Letta, Fioroni e Franceschini si sentirebbero definitivamente a casa d’altri. Viceversa, se il partito sarà preso in mano da Renzi, sarà l’ala più a sinistra del partito ad andare altrove.

 

Che partito sarebbe quello di Renzi?

Di sicuro, non sarebbe una socialdemocrazia. Non sarebbe altro, in realtà, che il partito di Renzi. Una formazione che si costruirebbe attorno al proprio leader come a destra è accaduto con Forza Italia e il Pdl rispetto a Berlusconi.

 

(Paolo Nessi)