Nel mondo piccolo della bassa reggiana non era insolito vedere duellare, scontrarsi e, persino, contrapporsi due uomini robusti e combattivi. Quegli uomini, usciti dalla penna di Giovanni Guareschi, sono Don Camillo e Peppone. Cittadini di un’Italia dall’identità plurale, ma accomunati dalla convinzione che l’altro – il sacerdote cattolico o il sindaco comunista – non poteva che essere ultimamente un bene per sé. Leggendo la lettera che don Julián Carrón ha scritto a Repubblica il 10 aprile 2013 e ascoltando il discorso tenuto ieri dal Presidente Giorgio Napolitano davanti alle Camere, sembra che la realtà ci abbia proiettato a Brescello.
Due uomini di tradizioni, età e storia assai diverse, esattamente come i protagonisti dei romanzi dello scrittore di Fontanelle di Roccabianca, hanno ribadito in sedi differenti il punto da cui il nostro Paese deve ripartire per evitare di soccombere alla palude elettorale e alla cancrena politica di una contrapposizione sorda e inconcludente in cui le forze partitiche si sono infilate nel corso della Seconda Repubblica.
Nella trasformazione dell’avversario in nemico, il sistema politico italiano ha sublimato la riflessione di Carl Schmitt (andando, per molti versi, oltre il giurista di Plettenberg), senza però trovare una valida alternativa all’immobilismo paralizzante che da essa è derivato. I problemi dell’Italia – sarebbe inutile negarlo – non sono stati generati dagli ultimi vent’anni, ma hanno origine già nella parte finale della Prima Repubblica. La dilatazione del debito e la spartizione predatoria delle rendite politiche erano già state profetizzate l’8 dicembre del 1964 da Gianfranco Miglio durante la sua prolusione per l’Inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Lo studioso comasco, allora Preside della Facoltà di Scienze politiche nell’Ateneo dei cattolici italiani, analizzando Le trasformazioni dell’attuale regime politico, non fu affatto tenero con il destino del nostro Paese. E, forse, non aveva tutti i torti.
Di fronte a un orizzonte che ormai appare schiacciato sulla prospettiva di un eterno presente, sia Carrón sia Napolitano indicano una strada (ossia un metodo, che trova le sue origini nella ricca tradizione aristotelico-tomistica) per iniziare a guardare con speranza e agire concretamente al bene comune del Paese.
Infatti, «se non trova posto in noi l’esperienza elementare che l’altro è un bene, non un ostacolo, per la pienezza del nostro io, nella politica come nei rapporti umani e sociali», osserva il sacerdote spagnolo, «sarà difficile uscire dalla situazione in cui ci troviamo», proprio perché «riconoscere l’altro è la vera vittoria per ciascuno e per tutti».
Nella testimonianza della Chiesa, dalla rinuncia di Benedetto XVI all’elezione di Papa Francesco, Carrón individua giustamente un utile contributo anche per l’attuale situazione italiana e invita tutti i cristiani impegnati in politica a offrire il proprio contributo per sbloccare lo stallo, affermando così «il valore dell’altro e il bene comune al di sopra di qualsiasi interesse partitico».
Nel suo discorso solenne e storico alle Camere, oltre a ricordare – a sorpresa e significativamente – l’incontro del 21 agosto 2011 con la «grande assemblea di giovani» del Meeting di Rimini, Napolitano ha espresso con forza una posizione simile «sia per sollecitare tutti a parlare il linguaggio della verità – fuori di ogni banale distinzione e disputa tra pessimisti e ottimisti – sia per introdurre il discorso su un insieme di obbiettivi in materia di riforme istituzionali e di proposte per l’avvio di un nuovo sviluppo economico, più equo e sostenibile».
«Il fatto che in Italia», osserva ancora il Presidente, «si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche». Seppur da una diversa tradizione ideale, il richiamo del Presidente ai parlamentari esprime quel bisogno di audace realismo che Carrón aveva indicato dalle colonne del quotidiano diretto da Ezio Mauro. Nella società e nelle sedi istituzionali della rappresentanza politica, il metodo per ripartire – che alcuni, accecati da un cinismo ormai amorale, potrebbero considerare ingenuo – è quello del riconoscimento dell’altro come bene per sé. Esattamente come nel “borgo” narrato da Guareschi, esattamente come nell’Italia di don Camillo e Peppone.