Com’era da aspettarsi, l’attenzione di commentatori politici e scienziati sociali si è concentrata sul collasso drammatico del Partito democratico che, come alcuni hanno scritto, ha realizzato un vero e proprio suicidio assistito. Per la verità, già dopo le primarie si era sviluppata nel sistema mediatico una forma subdola di attacco al Partito democratico e al suo gruppo dirigente che già di suo mostrava una indecisione e una confusione di linguaggi segno evidente dell’inadeguatezza dell’attuale gruppo dirigente e della mancanza di una chiara linea politica.
Ciò che tuttavia è accaduto nei giorni dell’elezione per il Quirinale va ben oltre l’impressione di una confusa mediocrità e di una povertà di iniziativa politica. Il Pd è apparso sin dalla prima votazione subito spaccato in almeno due grandi componenti contrapposte. Ma mentre nella votazione per Marini la fronda di Renzi si è manifestata apertamente rendendo esplicite le ragioni del dissenso, nella votazione per Romano Prodi è emersa la codardia e l’infamia di quanti, senza neppure rispetto per se stessi, hanno tradito la propria parola resa in pubblico nel corso dell’assemblea degli elettori. La gravità di questo gesto, a mio avviso non perdonabile, esprime tutto il cinismo, l’opportunismo e la mancanza di principi etici che affonda le sue radici in un vero e proprio processo degenerativo della coscienza di molti nostri concittadini.
Più di oltre cento franchi tiratori sono la manifestazione di un vero e proprio annichilimento della forza politica che li ha cresciuti in seno e secondo la mia valutazione sancisce la fine definitiva di un partito che purtroppo non è riuscito ad acquisire una credibile identità politica. Bersani sarà sicuramente il capro espiatorio, ma è l’intero gruppo dirigente ad avere perso ogni lucidità di analisi e ogni visione progettuale. Tuttavia anche se evidentemente si potrebbe continuare a lungo a “processare” un partito che butta clamorosamente a mare la fiducia degli elettori che lo hanno votato, penso che l’analisi debba andare oltre.
Se si analizzano infatti i risultati delle votazioni relative a Marini e Prodi, si possono trarre due conclusioni che mostrano come probabilmente ciò che è accaduto era inevitabile. Marini e Prodi hanno rappresentato simbolicamente due diverse vie d’uscita dalla crisi del sistema politico italiano. Marini, la linea delle grandi intese sostenuta sin dall’inizio da Giorgio Napolitano, e Prodi, invece, la linea dell’alternativa radicale al berlusconismo e alle politiche attuate dal cosiddetto governo dei tecnici. Se si prende atto di questa contrapposizione profonda, che non riguarda la tattica ma la risposta al problema di quale politica sia necessaria al Paese, si può trarre facilmente la conclusione che nessun nome tra quelli che continuavano ad essere proposti avrebbe ottenuto il consenso pieno dell’intero Partito democratico. Non è parso mai possibile ricondurre a una qualche unità questi due veri e propri blocchi che vanno da cento a duecento elettori Pd. Neanche Stefano Rodotà, che sembrava il candidato capace di unificare il centrosinistra, avrebbe ottenuto i voti necessari alla sua elezione.
Lo stallo in cui ci siamo imbattuti non ha espresso a mio parere soltanto volgari giochi di potere (che naturalmente sono stati presenti sin dall’inizio) ma una situazione obiettivamente drammatica. La doppia via apparentemente prospettabile di allearsi o con i grillini o con Berlusconi in realtà è stata sempre preclusa anche, ma non solo, dalla spaccatura interna del Pd. Bisogna a questo punto con molto coraggio e lealtà dire cosa si pensa veramente di fronte al movimento di Grillo e di fronte al successo inaudito di Silvio Berlusconi. Ritengo, anche se mi esprimerò con termini forse eccessivamente duri, che il nucleo profondo di questi due diversi “populismi”, come sono stati chiamati, sia tendenzialmente eversivo. Entrambi, infatti, risultano ispirati a un rifiuto delle regole più elementari della democrazia e del confronto e di un’autentica fedeltà alla nostra Costituzione verso la quale sono stati rivolti continui attacchi.
Sono convinto che tutte le volte che un movimento politico usa un linguaggio minaccioso e nega ogni diritto alla parola a chi si trova fuori dal proprio perimetro, la questione non è più soltanto politica ma attiene alla stessa forma di civiltà nella quale siamo finora cresciuti. Non si può in un breve articolo ricordare tutti gli episodi in cui, ciascuno per la propria parte, Grillo e Berlusconi hanno pronunciato minacce di manifestazioni di rivolta incontrollabile e hanno adunato i propri fedeli per irridere, umiliare e condannare all’ostracismo personalità di varia natura non appartenenti ai loro schieramenti. Pur non essendoci una legge dello Stato sul riconoscimento dei partiti politici, la realtà effettiva di questi due populismi è quella di essere assolutamente sottomessi ad un capo che può ordinare l’obbedienza assoluta senza alcuna replica.
Vorrei che qualcuno dei commentatori di questi giorni si sforzasse di dimostrare che la vita del M5S e la vita del centrodestra appaiono per lo meno rispettose del confronto democratico e della libertà di dissenso e di parola dei propri aderenti. In tutti e due i casi, e in modo più clamoroso nel caso di Grillo, siamo di fronte a una manipolazione vera e propria dell’opinione pubblica attraverso strumenti assolutamente inadeguati a realizzare una comunicazione non falsa e non propagandistica con i propri possibili elettori. Il grande equivoco della democrazia diretta, che può realizzarsi con la rete, non ha avuto l’approfondimento che merita sotto ogni profilo, ivi compreso l’uso che se ne può fare. Come oramai è noto a proposito del televoto dei festival di Sanremo, è possibile fare incetta di voti e convogliarli senza che risulti possibile accertare mai l’identità del votante. Anche quando sono istituiti i codici di accesso è sempre largamente possibile che si infiltrino masse di utenti di cui non si riuscirà mai ad afferrare la vera provenienza. Sostituire le istituzioni democratiche con la democrazia diretta digitale è allo stato una vera e propria truffa, aggravata dalla possibilità di forme di gestione sostanzialmente autoritarie da parte di chi dietro la rete trasmette ordini e direttive.
È sorprendente che una persona di larga esperienza politica e di sicura cultura giuridica, come Stefano Rodotà, abbia continuamente sottolineato di non essere candidato da Grillo ma dal web e di essere, proprio per questo, commosso dall’“amore” che tanti cittadini hanno mostrato verso di lui riconoscendo finalmente che la sua candidatura esprimeva la “sinistra”.
Rispetto alle due linee che hanno spaccato il Pd − Marini come sostanziale continuatore della linea Napolitano-Monti e Prodi come rilancio dell’economia sociale di mercato e della cooperazione tra sindacati e imprese, ispirata alla parte più nobile dello Stato Sociale − non mi risulta che Rodotà sia mai entrato nel merito, come del resto si conviene a chi esprime al meglio la tradizione liberale dei diritti individuali e pensa essenzialmente all’espansione della libertà del singolo senza particolare sensibilità per il problema decisivo della coesione e del legame sociale di un intero Paese.
Ammesso che astrattamente fosse stato possibile insistere nella sua candidatura, è abbastanza prevedibile che non avrebbe mai avuto i voti di Berlusconi e dei famosi franchi tiratori del Pd. Sarebbe stata comunque una candidatura di testimonianza che non avrebbe evitato il collasso e la spaccatura del Partito democratico. Sull’altro versante del populismo di centrodestra riesce altrettanto difficile immaginare che Berlusconi, convertitosi sulla via di Damasco, avrebbe accettato di sostenere un qualsiasi governo in grado di toccare in profondità i temi della corruzione dilagante e dell’evasione fiscale. La volgarità del suo linguaggio e il fanatismo fondamentalista tipico delle visioni totalitarie che praticano i suoi fedelissimi seguaci rendono difficile immaginare un tavolo comune dove si possono affrontare i veri temi della drammatica crisi, non solo economica, che attraversa il Paese.
Pur essendo dunque astrattamente legittimo immaginare sia la scelta di praticare un’intesa col centrodestra sia quella opposta di proporre un governo del cambiamento e della discontinuità, si deve riconoscere che entrambe urtavano contro il muro della natura anomala del populismo di Berlusconi e di quello di Grillo, ambedue nemici dichiarati della democrazia parlamentare rappresentativa e della costituzione repubblicana. L’arcano di ciò che nel sottofondo della scena ha agitato le acque del nostro Paese, in preda oramai ad una crisi totale della politica e della vita democratica, è stata la mossa del presidente Monti che sin dall’inizio della sua candidatura ha perseguito l’obiettivo di bocciare ogni tentativo del Pd di spostare un poco a sinistra la politica economica del Paese. Monti ha dichiarato di proporre la Cancellieri perché Prodi rappresentava una candidatura divisiva e che il suo obiettivo era stato da sempre quello di creare uno spazio politico che superasse la vecchia divisione fra destra e sinistra. In realtà Monti ha preferito il colloquio con Berlusconi piuttosto che quello con la sinistra perché l’autostrada delle larghe intese che si è aperta improvvisamente dopo l’elezione di Napolitano è quella che dà maggior potere e ruolo alla linea che ha sempre perseguito: risanare i conti tartassando i redditi di lavoro e impresa pur di restare in linea con le politiche monetarie dell’Europa, lasciando lo spazio a Berlusconi di gestire il suo torbido rapporto con quella parte di italiani che vive di tangenti e di evasione, di condoni e di scarsa o nulla attenzione per il dramma delle diseguaglianze economiche.
Purtroppo la rielezione di Napolitano consegnerà il Paese alla continuità di una gestione preoccupata principalmente dei conti pubblici e non delle condizioni di vita materiali degli italiani senza lavoro e senza futuro. Una soluzione inevitabile che per lo meno ricopre il cadavere putrefatto della vita pubblica italiana col pietoso lenzuolo della credibilità internazionale di Napolitano. Ma non ho dubbi che al di là degli sproloqui di Grillo e dei tanti pseudosinistri che si arroccano dietro la bandiera di un onesto liberale come Rodotà, noi stiamo entrando in una nuova fase politica caratterizzata da un vero e proprio commissariamento della democrazia parlamentare.
Solo un onesto dibattito in cui ciascuno si assume le responsabilità rispetto alla collocazione del nostro Paese in Europa potrà aiutarci a ragionare sulla crisi. Tanto più necessario è rinegoziare le condizioni di partecipazione all’Europa quanto più è evidente che questo non potrà accadere se continuiamo a vivere in un quadro politico in cui la metà del Paese è attraversata da spinte eversive paradossalmente incoraggiate dal vergognoso silenzio di molti intellettuali. L’alleanza con Grillo conduce alla morte della sinistra; l’alleanza con Berlusconi conduce alla degenerazione autoritaria del sistema politico. Il tema di queste elezioni è quello del destino e del futuro della nazione italiana.
In un clima di sfascio in cui è inimmaginabile un’improvvisa resurrezione del Pd e di una democratizzazione di quelli che ho chiamato i movimenti eversivi, credo che la vera prospettiva sia quella di una riforma elettorale immediata che istituisca una qualche forma di presidenzialismo in cui sono almeno i cittadini senza trucchi e senza infingimenti a decidere chi debba veramente rivestire il compito della garanzia della vita democratica del Paese, ormai pericolosamente esposta a rischi involutivi di ogni tipo.