Posso condividere solo le conclusioni dell’intervento di Barcellona, benché esse siano poggiate più sulla disperazione che sulla convinzione profonda che il presidenzialismo (nella forma americana o in quella francese) sia una forma più avanzata di democrazia, assai migliore di quella vigente nella Repubblica parlamentare. Ma su ciò, in seguito.
È certo che l’occasione dell’elezione del presidente della Repubblica ha fatto esplodere/implodere il Pd. Attribuirlo a fattori etici, a tradimento, a degrado etico significa rinviare la spiegazione al peccato originale e rinunciare a dar conto della logica razionale e dell’inevitabilità dell’evento. Partiamo dal presente e torniamo lentamente indietro, verso le cause prime. Come ha ricordato Napolitano nel suo intervento, nessuna delle quattro forze in Parlamento è in grado di fare il governo da sola. Se si vuole un governo, occorre fare delle alleanze. Ora, dal punto di vista del Pd, cui tocca l’onere della proposta, perché premiato con un premio di maggioranza, generoso quasi quanto quello previsto dalla legge Acerbo del 1923, gli unici alleabili erano i grillini. Solo che il repentino tattico infatuamento non è stato ricambiato. Dunque, un punto di vista onirico! E con Berlusconi? Mai e poi mai! Il nostro elettorato non lo sopporterebbe: così disse Bersani.
La domanda che Barcellona non si pone è perché Bersani si sia cacciato in un tale vicolo cieco. La ragione è che ha condotto l’intera campagna elettorale, eccitando l’antiberlusconismo come unico collante, per giustificare l’alleanza con la sinistra radicale e per prendere voti. Antiberlusconismo viscerale che, mi pare, Barcellona condivide. Ma allora non capisco perché si lamenti ora delle conseguenze, sia in ordine alla scelta del presidente della Repubblica sia in ordine alla formazione del nuovo governo.
In realtà, in questi giorni è finita per sempre una storia infinita: quella del Pci. Questo è l’evento storico! Il Pd era riuscito finora a rimandare i conti con il 1989, con la caduta del sistema degli Stati comunisti, utilizzando la figura di Berlusconi non come una sfida per cambiare la propria cultura politica, ma come un alibi per conservarla. I dilemmi di quella cultura erano già delineati dagli anni 70. Il Pci aveva raggiunto il massimo dei consensi nel 1976, grazie alla strategia del compromesso storico, ma ne era subito apparsa l’irrealizzabilità. Nonostante il patto eurocomunista siglato con Marchais e Carrillo, il Pci berlingueriano restava “comunista”, cioè continuava a proporre un modello di società superiore, oltre il capitalismo. La società comunista, appunto, o, come si preferiva dire, “socialista”, nel senso sovietico del termine. La conferma erano le sentenze sprezzanti di Enrico Berlinguer contro la socialdemocrazia tedesca, rea di subordinazione al capitalismo.
Il giudizio era nipote dell’accusa di socialfascismo rivolta da Stalin ai socialisti negli anni 30, proprio mentre settori del Kpd (Kommunistische Partei Deutschland) confluivano nei gruppi nazisti. Pertanto il veto di Kissinger a Moro di far entrare il Pci nel governo era inevitabile; quello di Breznev aveva una motivazione opposta: l’eurocomunismo minacciava la compattezza ideologica del campo socialista e flirtava con le tendenze autonomistiche di alcuni partiti comunisti dell’Est, che Stalin aveva bloccato con le impiccagioni della campagna anti-titoista del 1948/49 e i successori con gli interventi minacciati ed effettivi dell’Armata rossa a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968.
Aldo Moro pagò con la vita. Non è ancora chiaro per conto di chi operarono le Br assassine. Berlinguer pagò con la fine della sua unica strategia. L’effetto di quello stop alla strategia fu la sua sostituzione dal 1979 con “la questione morale” e con la proposta del “governo degli onesti”. Alle spalle stavano una cecità e un’autocertificazione. La cecità consisteva nel non vedere che la corruzione del Paese era da imputarsi all’intreccio tra Stato, partiti, politica, Amministrazione, cui lo stesso Pci partecipava. L’immoralità pubblica era ed è il sottoprodotto inevitabile di un cattivo modello istituzionale e costituzionale, che è ancora quello attuale, fondato sul monopolio partitico della scelta della rappresentanza e del governo. I cittadini votano e poi sono tagliati fuori. L’autocertificazione dichiarava che i comunisti erano dotati di uno standing etico superiore rispetto a tutti gli altri: era la teoria della “diversità comunista”. Questa eredità berlingueriana pesò sul Pci, quando di colpo il Muro si sbriciolò. Dal punto di vista storico e culturale si trattava di prendere atto che il riformismo socialdemocratico aveva avuto storicamente ragione. Ed era quanto, con prudenza e pazienza, Giorgio Napolitano, discepolo di Giorgio Amendola e leader dell’ala migliorista, aveva cercato di far comprendere prima a Berlinguer, che aveva reagito con asprezza nel 1983, poi a Natta, più disponibile, poi a Occhetto, del tutto sordo all’istanza socialista e socialdemocratica.
Ecco perché, nel succedersi delle sigle che hanno ridenominato il vecchio Pci − prima Pci/PDs, poi PDs, poi Ds, poi Pd −, l’odiato aggettivo “socialista” non compare mai. L’aggettivo “democratico” superava, ma solo oniricamente, sia il vecchio comunismo sia la vecchia socialdemocrazia. Perciò la profferta di Craxi di costruire insieme “l’unità socialista” per costruire l’alternanza e l’alternativa venne respinta al mittente: ne furono missi dominici D’Alema e Veltroni, dopo l’incontro nel camper con Craxi, durante il Congresso di Rimini del 1989. La tenuta elettorale e organizzativa del Pci, dopo l’89, mentre tutti gli altri partiti deflagravano, parve confermare la solidità dei paradigmi berlingueriani. In realtà, il Pci “tenne” perché meno compromesso degli altri nella gestione diretta del potere centrale, ma soprattutto perché più radicato nella società civile e negli apparati ideologici e amministrativi dello Stato, a partire dalla magistratura, cui vennero spesso lasciati compiti politici impropri.
Il Pci fu protetto dal crollo del Muro da un lascito che risaliva agli anni 50 e che oggi si è consumato. Messo alla prova delle alleanze, Ds-Pd ha continuato ad essere fedele al dogma: “nessun nemico a sinistra”, con ciò consegnandosi per ben due volte alla sinistra radicale, ieri di Bertinotti, oggi di Vendola. Assorbite piccole minoranze socialiste, con gli eredi cattolici della Dc ha praticato relazioni di convenienza reciproca, senza farsi mettere in discussione sui temi centrali dell’emergenza antropologica, cui Barcellona e altri hanno dedicato un assolutamente meritevole allarme. Da questo punto di vista il Pd è divenuto un partito radicale di massa, rompendo con la tradizione del Pci.
Sul piano programmatico, il Pd appare fortemente conservatore sui temi istituzionali e amministrativi, difende il primato assoluto dei partiti, spacciato per primato della politica. Intanto la sua base elettorale è cambiata: sempre meno lavoratori dell’industria, sempre più pubblico impiego, insegnanti, pensionati, piccola borghesia urbana. I ceti medi lo stanno lasciando. Chi ricorda più la conferenza di Togliatti tenuta al Teatro Municipale di Reggio Emilia il 24 settembre 1946 su “Ceto medio e Emilia rossa”? Gli ex-operai diventati piccoli artigiani o imprenditori non votano Pd. I giovani votano Grillo o si astengono.
Sul piano culturale, il Pd non ha più un asse visibile. Prigioniero del primato berlingueriano dell’etica, in forza del quale ci si autocertifica corifei supremi della moralità, benché questa certezza non sia più così granitica, dopo la vicenda Mps. L’incapacità di passare ad uno stadio nuovo come il New Labour blairiano o la Neue Mitte di Schroeder è stata coperta da una troppo alta considerazione morale di sé. Questa è l’essenza dell’antiberlusconismo. Un po’ poco per fare politica, tenendo presente che “l’impresentabile” – ma per Berlinguer lo fu Craxi – ha un bel po’ di milioni di voti. Impresentabili anche loro?! Perciò i suoi gruppi dirigenti e i suoi neo-eletti sono esposti ai venti delle “etiche della convinzione” − trasposizione del narcisismo dell’Io sul piano etico − di cui i movimenti one issue della società civile sono portatori naturali. Troppo poco per tenere insieme un partito. E, infatti, ora l’equivoco è sciolto.
E adesso?! Le strade per la sinistra non sono molte: o si infila, con Barca e Vendola, nel cammino già noto di una sinistra etica, massimalista e populista di sinistra, o prende la strada della sinistra europea di una socialdemocrazia rinnovata, un socialismo liberale, che abbandoni il vecchio paternalismo statalista della socialdemocrazia, che metta al centro la persona, la società civile, il federalismo, la destatalizzazione e la departitizzazione dei gangli fondamentali dell’Amministrazione, delle banche, dei giornali, delle banche. Non sarà il paradiso terrestre, ma certo un Paese più civile, più giusto, più normale. Come accade nel resto d’Europa.
Il primo passaggio da fare è quello dalla “repubblica dei partiti” alla “repubblica dei cittadini”, dalla Repubblica parlamentare alla repubblica presidenziale. Napolitano ha giustamente stigmatizzato come “regressione culturale” il rifiuto assoluto di ogni intesa e di ogni compromesso. Basta con l’angelismo cataro. Barcellona scrive di essere stato favorevole ad una presidenza Prodi, attribuendole una linea antiberlusconiana radicale. Ma anche Prodi avrebbe dovuto prendere atto che con gli attuali numeri in Parlamento è possibile solo un governo di coalizione. Se non si vuole la coalizione, si torna a votare a giugno. Dopo di che è facile profezia prevedere che l’antiberlusconismo radicale ci consegnerebbe la vittoria di Berlusconi. È esattamente quanto accade dal 1996: i governi di centro-sinistra ci hanno sempre regalato governi di centro-destra. E i movimenti eversivi? Sono sempre l’ultimo alibi dei conservatori di sinistra.