Caro direttore,
escludo subito di voler coinvolgere Pietro Barcellona nell’accusa di moralismo, conoscendo da tempo la sua storia e i suoi scritti, dai quali la mia generazione leggermente più giovane ha sempre tratto ammaestramenti. Così come escludo l’intenzione di voler demonizzare la storia della sinistra e del Pci. Chi lo fa, soprattutto se ne ha fatto parte, pratica un atteggiamento infantile e astratto. Nec ridere, nec lugere, sed intelligere! Restano alcuni punti, sui quali c’è un evidente disaccordo. Riguardano il giudizio storico sulla questione morale, così come la concepì Berlinguer, e quello sulla situazione politica presente: su Napolitano, su Berlusconi, su Grillo.
Il moralismo di Berlinguer non è consistito nell’aver indicato con forza la necessità di un rinnovamento etico del Paese, dei singoli, dei partiti, dell’Amministrazione statale. Ma nel non aver proposto nessuna via d’uscita, se non quella del “governo degli onesti”. In realtà, Berlinguer ha coltivato una concezione moralistica della morale, identificando morale e etica pubblica. Poiché il bene e il male sono antropologicamente dentro ciascuno di noi (i credenti ne attribuiscono la responsabilità al peccato originale, i non credenti alla natura animale dell’uomo) occorre che le istituzioni pubbliche creino le condizioni perché dal “legno storto” che noi siamo si possa trarre il meglio e si limiti il peggio, senza con ciò illudersi di redimere una volta per tutte l’uomo e la storia. Non c’è dubbio che la centralità del sistema dei partiti – di governo o di opposizione che fossero – era e continua ad essere una delle cause fondamentali di “peccato” pubblico. La partitizzazione pervasiva di ogni aspetto della vita civile, il principio di appartenenza e di fedeltà cieca – perché ciò che è bene per il partito o per il movimento è automaticamente bene per la collettività – tutto ciò ha generato meccanismi corruttivi.
Ma la riforma dei partiti non si fa cercando disperatamente uomini onesti nella società civile. La vicenda di Di Pietro e della Lega e di ogni moralista presente e prossimo venturo testimoniano che è una via senza sbocco. Si migliora la qualità dell’etica pubblica se si toglie ai partiti il monopolio della scelta della rappresentanza e del governo e se la si riconosce ai cittadini elettori. Il che significa cambiare forma di governo e di Stato; significa fare una legge elettorale coerente con la scelta diretta del rappresentante e del capo dello Stato e del governo. I partiti non vengono aboliti. Neppure negli Usa accade né in Francia. Sono solo (!?) costretti ad essere migliori. Non che questo ci riporti al paradiso terrestre, si intende. Ma certo viene reso più difficile identificare il “bene di partito e di Movimento” con il “Bene comune”.
Berlinguer e con lui l’intero gruppo dirigente, area migliorista compresa, è sempre stato attaccato al “primato della politica”, cioè dei partiti, alla proporzionale, al governo costruito e abbattuto in Parlamento. Il “primato” della politica è stato il nuovo Assoluto, quindi anche legibus solutus. Questo conservatorismo è stato la causa principale della crisi morale e istituzionale della Prima repubblica e anche della Seconda. La quale ha furbescamente pensato di limitarsi alla modifica della legge elettorale. E perciò è andata a sua volta in crisi, più rapidamente della Prima.
Quanto al Pd, non è stato abbattuto né dal sovversivismo di Berlusconi né da quello di Grillo. Più semplicemente e profondamente, non ha sciolto i nodi culturali e ideologici della nobile e qualche volta tragica storia comunista e socialista. Anche i socialdemocratici tedeschi e i laburisti inglesi, pur non essendo comunisti, hanno dovuto affrontare delle rotture epistemologiche del loro discorso, giacché lo sfondo culturale tra socialisti e comunisti italiani era ormai comune. Loro lo hanno fatto, il Pci-Pds-Ds-Pd no! La ragione storica di questa incapacità di rottura è il peso dell’eredità berlingueriana, che è entrata in risonanza con movimenti morali della società civile, senza essere accompagnata da un pensiero costituente di tipo nuovo. Inchiodato alla Prima repubblica e alla Costituzione più bella del mondo, convinto della superiorità morale della sinistra, il gruppo dirigente del Pd ha distrutto il Pd. Abbiamo raggiunto all’indietro la sinistra francese, nella condizione in cui si trovava prima di Epinay, anch’essa ottusamente volta all’indietro verso la Quarta repubblica, caduta nel 1958. Con il paradosso che a Epinay nel giugno del 1971 fu Mitterrand a unificare i socialisti, non essendo lui mai stato socialista, portandoli al potere dieci anni dopo.
Ma è sul giudizio sulla situazione politica che è necessario un confronto ulteriore, in parte tuttavia superato dai fatti.
Napolitano non ha coperto con il suo prestigio internazionale alcunché, ha semplicemente messo la sinistra di fronte al “principio di realtà”: un governo Pd-M5S non è possibile. Perciò o il Pd fa un governo con il Pdl oppure si va a votare. Fare un governo con il Pdl significa deludere un sacco di elettori di sinistra, convocati alle urne sull’onda dell’antiberlusconismo. Ma andare a votare comporta regalare il governo a un Berlusconi di nuovo premier, fino a ieri già al 34%, nei sondaggi non di fonte berlusconiana. Perché Bersani ha messo la testa in questo cappio? Perché ha sbagliato programmi, alleanze – seguendo il nefasto principio del “nessun nemico a sinistra – e perciò leader. Un Renzi leader avrebbe sottratto voti a Grillo, a Monti e al Pdl. Avrebbe vinto le elezioni. Bersani e il suo cerchio magico hanno preso un abbaglio storico già dalle primarie.
Poiché la politica non è un’opinione, da questo errore sono venute matematiche conseguenze sulla possibilità di fare il governo, sull’elezione del presidente della Repubblica, sulla tenuta del Pd. Quand’anche si fosse riusciti a eleggere Prodi o Rodotà (con i suoi poco più di 4mila voti di cittadini entusiasti), il quadro non sarebbe cambiato neppure di una sfumatura. Si sarebbe andati a elezioni subito, con l’attuale legge elettorale, riconsegnando il Paese a Berlusconi. Il paradosso dell’antiberlusconismo radicale è esattamente questo: che produce il suo opposto.
Parliamo allora di Berlusconi. Condivido ogni parola di quanto Pietro Barcellona scrive sul personaggio. Ma dall’indignazione morale e civile che Berlusconi suscita o dalla nostra eventuale autocertificazione di superiorità morale, non si può tirare la conclusione che, pertanto, non si debbano fare alleanze di governo con lui. Perché in democrazia contano i voti, che sono come i soldi: non olent! Semmai, occorrerebbe che la sinistra avesse tirato − e per tempo − delle conclusioni circa le riforme istituzionali, compresa quella del sistema dei partiti nonché quella sul conflitto di interessi. Berlusconi e Grillo tendenzialmente eversivi? Si può solo invitare, come ai vecchi tempi, alla “vigilanza democratica”. Ma l’unica cosa che può fare la politica è fare riforme: costituzionali, istituzionali, amministrative. È il non-governo che alimenta le tendenze eversive. Poiché operiamo in un sistema, l’assenza di un polo liberal-socialista funge da alibi e da con-causa per l’assenza di un polo liberal-democratico e viceversa. Insomma: nessuno può scagliare la prima pietra.
Quanto alla tenuta del governo appena costituito, si è già aperta una bella gara tra inaffidabili: per ora è il Pd in testa alla corsa. Sono sicuro che tra poco anche Berlusconi incomincerà a far ballare Letta. Fortunatamente, i sondaggi dicono che il 60% degli italiani è ormai favorevole al presidenzialismo; il 48% di costoro sono elettori di sinistra. Chissà che la sinistra si renda conto che è venuto il tempo di riforme radicali della forma di governo, dello Stato (abolire le Province, accorpare i Comuni, dimezzare le Regioni, abolire e ridurre ministeri), del fisco. Il che significa colpire, ahimé, le proprie basi elettorali, fondate sui pensionati, sui dipendenti statali, sul pubblico impiego, sui ceti politici locali. Hic Rhodus, hic salta!