C’è un fatto di cronaca che ha oscurato la nascita del nuovo governo, avvenuta di domenica; segno, questo, dell’urgenza riconosciuta da chi aderisce al profondo senso di responsabilità del presidente Napolitano. 

L’urgenza è stata subito espressa dal gesto disperato di Luigi Preiti, disoccupato, divorziato, e legato alla Calabria, terra di condizioni economiche difficili. Nel giorno del nuovo governo si reca davanti al palazzo del governo e spara sui carabinieri. Dirà poi che voleva sparare sui politici. Un gesto calcolato, espressione del conflitto profondo fra la condizione di vita di tanti italiani e la responsabilità di dare risposte da parte di chi è stato eletto per governare. 



È un’evoluzione di quello che è diffusamente accaduto negli ultimi mesi, con tanti imprenditori e lavoratori che si sono suicidati. In questo caso si tratta di una persona divorziata e disoccupata, la forma più disperante di condizione umana nella società contemporanea. Ci siamo accorti di quanti vivono in soluzioni di precarietà, nelle auto e nei camper, perché la casa hanno dovuto lasciarla alla restante famiglia? È evidente che la solitudine è la peggiore delle condizioni nel nostro tempo. Non si possono neppure sostenere con la solidarietà, perché non si conoscono. Hanno il bisogno drammatico di emergere dall’ombra. 



Il  passaggio di Luigi Preiti alla violenza è un tendenziale progetto politico, la decisione di far scatenare la rivolta contro le istituzioni, in nome della povertà e come forma per la rivendicazione di diritti elementari.

La domanda che ci dobbiamo porre tutti è: la rivolta disperata può diventare un fenomeno diffuso? Certo non è una cosa auspicabile, perché non nasce nulla dalle rivolte. Ma il grido esiste ed è rimbombante. Dunque sono urgenti politiche di coesione sociale. Da chi ce le aspettiamo?

Se si ha in odio le controparti, com’è accaduto nella propaganda elettorale da parte di chi voleva i voti per sé a qualunque costo, allora perché in tale odio non si dovrebbe radicare la rivolta violenta? Grillo ha preso le distanze dal gesto di Preiti, dice che la democrazia non si basa sulla violenza, ma le sue campagne antisistema sono condotte con parole talmente cariche di negatività che non può essere fuori dal generarsi della violenza. Il Movimento 5 Stelle ha radunato un quarto degli elettori in una logica unilaterale: o si fa come dicono loro oppure niente. Ma poi vanno a sostenere tutte le strane rivendicazioni di gruppi partigiani di cause particolari, che sono senza il senso del bene comune. E risolvono il problema dei poveri con il sussidio di disoccupazione garantito. Ovvero con un aumento dei costi pubblici spropositato, che la nostra economia non può sostenere. Dunque con Grillo non si esce dalla disperazione, neppure cercando a tutti i costi segni di fiducia nel suo programma.



Bersani, che cercava di recuperare voti di sostegno dai grillini, ha confermato che le logiche del potere non sono fondate sulla responsabilità. Si tratta di una riduzione grave della politica, perché comporre le parti e cercare risposte assieme per il bene comune è la sostanza della politica, e naturalmente è cosa diversa dal pensare solo al potere. Bersani non ha sentito la gravità e l’urgenza di assumere la responsabilità di governare. Avendo un sistema sociale garantito dalla macchina politica del Pd, Bersani ha vissuto una estraneità dai drammi dei piccoli imprenditori e dei disoccupati. Lui aveva solo il bisogno di poter garantire il suo sistema di  potere, e questo confligge completamente con l’accordo fra le parti aventi interessi diversi.

Vendola (Sel) e Maroni (Lega) esercitano il diritto di fare opposizione, ma non c’è proposta nella loro opposizione. Affermano che non si può sperare in nulla di buono da chi ci governerà. E in tal modo fanno diventare unica ipotesi la loro visione parziale. Le ragioni dei lavoratori sindacalizzati e con posto fisso, oppure le ragioni del Nord che non vuole più mantenere tutta l’Italia, sono comunque opposizioni a cui non possono fare riferimento le persone disoccupate e in difficoltà economica. Senza una progettualità fondata su una possibile speranza, si rende ancora più disperante la condizione di vita della povera gente.     

Berlusconi ha condotto la sua campagna elettorale in modo furbo e apparentemente efficace, ha scaricato la colpa della crisi sul governo Monti, ha fatto promesse di riduzione delle tasse senza trovare convergenze sociali ampie, ma solo cavalcando i sentimenti che covano sotto la disperazione. Ovvero con argomenti populistici che gettano benzina sul fuoco alle proteste delle persone in difficoltà. Poi, dopo aver recuperato voti, si è convertito al ruolo di grande pacificatore, per una grande coalizione di governo. Eppure insiste ancora sulla restituzione dell’Imu, come se il trovare i soldi necessari fosse cosa da nulla. Allora perché non il salario garantito per i disoccupati? La differenza fra la due demagogie è labile.

Passiamo allora al governo Letta. Bene la coalizione in forma abbastanza sganciata dal pastrocchio delle rappresentanze di partito. Bene la rapidità di composizione. Ora serve un’azione veloce ed efficace. Ma il punto è se questo governo avrà il coraggio di superare gli interessi di partito. Se fossero politici eletti da comunità o territori avrebbero una loro base propria e sarebbero più liberi nell’esercitare il ruolo di governo. Ma purtroppo sono stati eletti con un sistema dove i capi di partito hanno fatto la selezione della classe dirigente, e allora adesso anche questi ministri avranno la preoccupazione di non scontentare la segreteria del loro partito. Con questa logica è accaduto che non si prendevano decisioni di cambiamento nella gestione precedente.

Adesso sarà diverso? È possibile, ma occorre far valere la superiorità del senso di responsabilità, come l’abbiamo visto in questi ultimi giorni, grazie a Napolitano e ora a Letta.