Dicono che il 28 aprile si sia insediato un nuovo governo democristiano. Se così fosse, sarebbe un caso da manuale di corsi e ricorsi storici. Significherebbe che, fallito il tentativo delle nuove culture politiche, l’unica alternativa per cambiare il Paese consisterebbe nell’affidarsi agli eredi di un partito scomparso vent’anni fa. Ne abbiamo parlato con Calogero Mannino, militante di lungo corso, più volte parlamentare e ministro democristiano.
Anche lei crede che Napolitano abbia nominato un governo targato Dc?
Questo governo è composto, prevalentemente, dal Pd e dal Pdl, due partiti in cui larga parte del personale politico proviene dalla Dc. Non solo: osservando Letta, Franceschini e Alfano, sembra di avere di fronte la fotografia del gruppo dirigente del Movimento giovanile Dc del ’91. Questo, tuttavia, non ci autorizza a definirlo “democristiano”.
Perché no?
La comune militanza nella Dc attiene al passato di queste persone. E, benché tale passato abbia lasciato un’impronta genetica, nessuno, tra costoro, si auto-definisce democristiano. Anzi: sostanzialmente, gran parte delle scelte effettuate nel corso degli anni rappresentano la negazione di quell’esperienza comune.
Ci spieghi.
Chi è confluito nel Pd, ha deciso, secondo il verbo di parte della sinistra Dc, di immedesimarsi in una storia diversa della propria, in quella dei post comunisti; chi è confluito nel Pdl, invece, si è collocato nel luogo della reazione ad una vittoria della sinistra. Insomma, alcuni hanno scelto la strada rivoluzionaria, altri quella reazionaria. Ma la Dc non era ne l’una ne l’altra cosa.
Lei parla di “impronta genetica”: cosa è rimasto, quindi, dell’esperienza democristiana?
Chi è stato nella Dc ha interiorizzato logiche, metodologie e dinamiche che, di tanto in tanto riemergono. Prendiamo proprio il caso di Letta: ha manifestato il classico atteggiamento moroteo (insospettabilmente, considerando che sono trascorsi 35 anni dalla morte di Moro); ovvero, è stato al suo posto lealmente, a fianco di Bersani, attenendo che il suo esperimento fallisse. A quel punto, ha incassato dall’ex segretario la lealtà che gli spettava e, nel frattempo, è riuscito a guadagnarsi la fiducia del presidente della Repubblica.
Crede che gli ex democristiani, in quanto tali, riusciranno a collaborare per il bene del Paese, pur provenendo da partiti diversi?
Eviterei di buttarla in apologetica… In ogni caso, bisogna ammettere che chi ha militato nella Dc ha costruito la sua personalità secondo quel carattere che Gobetti intuì essere la prerogativa dei cattolici impegnati in politica: il “concretismo”, (un atteggiamento ben diverso dal realismo machiavellico). Si tratta della capacità di valutare la realtà nella sua concretezza, lasciandosi sospingere dall’ideale senza, per questo, esser trascinati nel regno del velleitario. Inoltre, ciò che caratterizza questa visione è il senso del rapporto con gli altri: mentre nell’esperienza comunista sono soggetti da egemonizzare, in quella cattolica sono persone da convertire, pur rispettandone la diversità.
Quale sarà il compito principale di un governo così composto?
Chi ne fa parte dovrà prepararsi a gestire una nuova fase della Repubblica italiana. Questo esecutivo, infatti, è l’ultimo governo parlamentare realizzato in base all’attuale Costituzione. Ma è il primo a discendere direttamente dall’elezione del presidente della Repubblica, il quale lo ha patrocinato persino nella compilazione dei ministri.
A proposito: non è curioso che l’”ultimo comunista” abbia dato tanta fiducia a chi proviene da una storia opposta alla sua?
Non è così strano se si pensa che Napolitano è sì l’ultimo comunista, ma di ceppo togliattiano e non berlingueriano: in tempi insospettabili, si convertì alla socialdemocrazia, muovendo dall’esperienza di Giorgio Amendola. Fu il primo comunista, inoltre, ad entrare in America e a parlare inglese. Con i vecchi democristiani, inoltre, ebbe un rapporto non solo corretto ma anche determinato da una visione storica. Non ha mai considerato, cioè, i socialisti e i democristiani l’incidente da piegare alla propria storia.
(Paolo Nessi)