In un’Italia in cui Beppe Grillo ha conquistato un quarto dell’elettorato attaccando le grandi banche, le grandi aziende, i grandi giornali, può essere ancora non inutile leggere con attenzione la prima pagina del Corriere della Sera: il maggior quotidiano italiano, controllato da un direttorio di banche (Mediobanca e Intesa Sanpaolo) e “big names” imprenditoriali (Agnelli e Pesenti ma anche Rotelli e Della Valle). Ieri mattina, ad esempio, la “front” del Corriere forniva un quadro pressocchè completo e molto istruttivo di come sta cambiando la “view” di soggetti che non si sono mai limitati ad osservare soltanto quanto accade nei palazzi della politica.
L’editoriale sul “mistero triste” di MS5 è probabilmente lo spunto più significativo. Affidato a Gian Antonio Stella – la penna più antica e solerte del Corriere nell’alimentare l’ideologia antipolitica – l’attacco al grillismo nasconde a fatica il riconoscimento di un clamoroso errore strategico-culturale. Vent’anni di tenace “guerriglia civile” contro Berlusconi – non meno dei limiti e del logoramento di quest’ultimo – hanno certamente aperto nel paese un importante cuneo elettorale: ma il neo-qualunquismo ha premiato un comico “apolitico” dagli inquietanti accenti hitleriani, non l’ex presidente di Fiat e Confindustria, Luca di Montezemolo, tanto meno il premier super-corrierista Mario Monti.
Novant’anni fa, d’altronde, il senatore Giovanni Agnelli e i suoi colleghi lombardi avevano un po’ più abilmente inventato loro da dietro le quinte Benito Mussolini come domatore antipolitico di un caotico dopo-guerra. Ed è in quel ventennio – non per caso – che tutto è rinato e cresciuto: il Corriere di Indro Montanelli, la Mediobanca di Enrico Cuccia, la Fiat che affianca alle produzioni belliche le prime “volks-wagen” italiane. A poco sembrano quindi servire oggi le recriminazioni – formalmente liberaldemocratiche – del “column” del Corriere, se non a certificare che in un’area storica del sistema-Paese la progressiva incapacità di intervenire con efficacia nel terziario “politico-mediatico” è andata di pari passo con la perdita di competitività nel secondario industriale (nella Fiat, nella stessa Rcs o in Telecom) o nel terziario finanziario.
Ma – proseguendo “per mosse del cavallo” – sulla prima del Corriere c’é spazio anche per Sergio Rizzo, coautore con Stella di molti best-seller contro una “casta” divenuta via via metafisica e universale: ma non al punto di includervi una categoria finora tabù, i magistrati. Il tabù è parso virtualmente rompersi ieri, anche se con toni ancora felpati: punzecchiare i magistrati amministrativi sui rimborsi spese è ancora lontano mille miglia dal chiedersi perché l’inchiesta Mps è stata sotterrata e il processo Ruby invece accelera. Ma, per quanto cauto, è pur sempre un accenno di chiusura di parentesi per il Corriere “contemporaneo”, forgiatosi durante la dura svolta antipolitica di Tangentopoli-1 dell’antipolitico Antonio di Pietro.  



Ma perchè il Corriere segnala proprio ora di “avere un problema” con la magistratura? Un procuratore antimafia presidente del Senato e possibile candidato al Quirinale come Pietro Grasso è troppo anche per il “giustizialismo istituzionale” di Via Solferino (e magari di Piazzetta Cuccia)? E’ vero che eroi nuovi e disparati di lettori ed elettori come Antonio Ingroia, Valerio Onida o Gustavo Zagrebelsky hanno altri quotidiani di riferimento. Sullo sfondo resta comunque sempre il rapporto nevrotico del capitalismo nobile con Berlusconi: nemico da abbattere con ogni mezzo, ma col rischio poi che una magistratura troppo sicura di sè non distingua più fra imprenditori “buoni” e “cattivi” (com’è stato già vent’anni fa con la stessa Fiat e come è in parte oggi, quando un banchiere come Alessandro Profumo affronterà un processo).
Questo premesso, il Corriere ieri si aggrappava con decisione a Matteo Renzi, regalandogli intenzionalmente un’intervista nel giorno in cui il sindaco di Firenze è d’apertura comunque altrove: a cominciare da Repubblica. Ma mentre sul quotidiano romano Renzi incita “al voto” sul Corriere punta, come prima opzione “all’intesa con Berlusconi”. Evidente la rincorsa di Via Solferino a un’antipolitica “buona”, “di mercato”; cosi” come invece Repubblica si vede costretta a ripiegare su Renzi trattandolo un po’ come il cardinale Bergoglio (se Bersani “rinuncia”, il Pd riparta dal “secondo votato” alle ultime primare indette dal partito). In ogni caso, sulla spalla della prima del Corriere il “proboviro” Pd Michele Salvati sentenzia che Bersani è un leader “sconfitto”: non senza un percepibile sollievo nel profondo del vecchio quotidiano “montanelliano”.
Sarà poi un’impressione sbagliata, ma il Corriere tratta il sindaco di Firenze come in fondo trattò Massimo D’Alema: quando – guarda caso – pugnalò alle spalle Romano Prodi e si conquistò la palma di primo premier (ex) comunista della storia italiana. Prima di commettere il “delitto politico” finale, D’Alema si era mosso platealmente come “miglior nemico” di Berlusconi. E il suo anno di governo passò agli annali soprattutto come quello dell’Opa Telecom: resa possibile dal famoso patto D’Alema-Cuccia in casa Marchini. Il Corriere strizza l’occhio a Renzi come Mediobanca (allora un po’ in difficoltà) offrì la propria amicizia banco-relazionale al “giovane e inesperto” D’Alema?
Oggi comunque sia Prodi che D’Alema stanno emergendo come candidati “politici” forti al Quirinale: assieme alla figura – un po’ meno politica e un po’ meno forte – di Giuliano Amato (successore “para-tecnico” di D’Alema nel 2000 ma anche premier del prelievo forzoso sui depositi bancari degli italiani nel ’92). Al Corriere l’ipotesi Prodi non piace: lo scrive chiaro e tondo stamattina in prima, rivelando una presunta mozione di 120 parlamentari Pd contro il professore bolognese. Forse ne sarà spiaciuto – magari solo per oggi – Giovanni Bazoli, il presidente di Intesa Sanpaolo antico amico e alleato di Prodi. Ma non è difficile intuire la comprensibile preoccupazione dei “poteri deboli” per il possibile ritorno di un “campione della politica”, forse l’ultimo rimasto in circolazione dopo Giorgio Napolitano.



E’ stato il giovane Prodi, dall’Iri, a far sloggiare Cuccia dal consiglio Mediobanca. E’ stato l’ultimo Prodi a rompere implacabilmente le uova nel paniere di Tronchetti Provera che voleva vendere Tim e far entrare Murdoch in Telecom; e ai Benetton che volevano fondere-vendere Autostrade agli spagnoli di Abertis. E’ stato Prodi a tentare di pilotare con Goldman Sachs le grandi privatizzazioni degli anni ’90 con fini politici interni (scardinare il sistema-Mediobanca e far crescere l’UniCredit di Profumo e Ambroveneto-Cariplo di Bazoli e Giuseppe Guzzetti) e non con obiettivi tecnocratici globalisti (come fece Mario Draghi, costruendo la sua futura ascesa di banchiere centrale).
E Monti? Un titolo notarile sull’ennesimo rinvio del decreto “salva-imprese” sul rimborso dei debiti Pa fa il paio con un vago anatema contro il solito “potere oscuro delle burocrazie” (ma un capo di governo non è designato a quel ruolo per far marciare lo Stato nella giusta direzione? Insomma: il premier in carica merita il rispetto protettivo del suo Corriere ma in questa fase nulla di più.
“Per il Colle Mara Carfagna indica Emma Bonino”. Non è un titolo: è l’ultima riga del richiamo dell’intervista a Renzi. In teoria è un errore tecnico. Ma forse no.

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