Quando la realtà istituzionale supera la fantasia, tocca alla politica farvi fronte. A questa spetta il compito di assumere soluzioni adeguate e percorribili, sperimentando vie d’uscita materialmente praticabili e costituzionalmente compatibili.

Del resto, la politica consiste nell’“arte del rimedio”. Come già insegnava Machiavelli, lungi dal legittimare un uso astratto e pervasivo del potere, essa svolge la funzione essenziale di porre rimedi, riparare le falle, trovare equilibri provvisori e sempre precari.



Proiettata in ambito costituzionale, tale prospettiva ha consentito ai Padri costituenti di conciliare le impellenze geopolitiche dell’incipiente guerra fredda, con la pari urgenza d’introdurre principi culturalmente dirompenti e tali da aprire una nuova stagione di sviluppo e di pacificazione sociale. Analogamente, rimessa in ambito istituzionale e applicata nel pieno della guerra fredda, tale prospettiva ha consentito di correggere le storture di un sistema democraticamente «bloccato», individuando formule e verificando modelli astrattamente impensabili, eppure tali da favorire un’inclusione politico-sociale altrimenti irrealizzabile.



E’ in tale prospettiva che occorre inquadrare l’iniziativa del Presidente della Repubblica, di sospendere la ricerca di una soluzione alla formazione del governo e di facilitarne il successivo compimento per mezzo dell’istituzione di due gruppi di lavoro programmatici, limitati per tempo, ruolo e materia (istituzionale l’uno, economico-sociale ed europea l’altro).

Si tratta di un’iniziativa certamente inedita nella storia parlamentare repubblicana; la relativa eccezionalità, tuttavia, anziché vanificare, favorisce le ragioni del parlamentarismo italiano, rimanendo pur sempre inscritta nel complesso equilibrio costituzionale fra i poteri dello Stato. Essa è derivata dalla situazione di necessità provocata dall’imprevedibile crisi politico-istituzionale ed economico-finanziaria, cui ha concorso la straordinaria congiuntura fra il responso elettorale del febbraio 2013 e l’emergenza economica e finanziaria in corso; inoltre, essa è mossa dalla pari necessità di prevenire una situazione di crisi ancor più grave e imponderabile, tanto nell’immediato (a causa dell’inevitabile agitazione dei mercati finanziari), quanto all’esito del c.d. semestre bianco (a seguito dell’eventuale successivo scioglimento delle Camere).



Sullo sfondo, dunque, vi è il fallimento di quel bipolarismo all’italiana, che è stato incrementato artificialmente dalla transizione infinita della «Seconda Repubblica».

Un bipolarismo animalesco (quanto a conflittualità), famelico (quanto a malaffare) e paralizzante lo sviluppo socio-economico nazionale (quanto a inefficacia di governo), che è parso ancor più paradossale se riferito alla sostanziale omogeneità dei programmi politici propagandati dai partiti in occasione dell’ultima campagna elettorale. Le elezioni politiche del 2013 hanno registrato un quadro nazionale frammentato fra grandi minoranze antitetiche, incomunicabili e solitarie, i cui flussi elettorali sono stati ulteriormente segnati dalla rilevanza numerica del c.d. partito degli indecisi.

E’ in tale contesto, per l’appunto, che si colloca la situazione di stallo istituzionale registrata dal Presidente della Repubblica all’esito delle consultazioni seguite all’incarico conferito, ai fini della formazione del nuovo governo, al capo della coalizione di centro-sinistra, on. Bersani.

Lo stallo è consistito nell’impossibilità presidenziale di porre in essere qualunque iniziativa senza procurare un danno al Paese. Seguendo il ragionamento implicito nei comunicati del Quirinale, per un verso, la “persistenza di posizioni nettamente diverse”, se non proprio “inconciliabili”, fra le diverse forze parlamentari in merito alla soluzione da dare alla crisi di governo, non avrebbe potuto risolversi se non con l’immediato scioglimento anticipato delle Camere e con il conseguente ricorso alle urne; ipotesi, tuttavia, non percorribile per via del semestre bianco, essendo oramai prossima la scadenza del mandato presidenziale. Per altro verso, premesso che “il valore della stabilità istituzionale, non [è] minore di quello della stabilità finanziaria”, l’urgenza di assicurare alla comunità internazionale “il grado di affidabilità del nostro paese” avrebbe imposto le immediate dimissioni del Presidente della Repubblica, al fine di consentire al neo eletto una nuova e più compiuta valutazione, da concludersi con l’eventuale pari scioglimento anticipato delle Camere; ipotesi, tuttavia, parimenti impossibilitata dal verosimile rischio di travisamento della comunità internazionale proprio sull’affidabilità e sulla stabilità italiana.

Di qui, in definitiva, la riscontrata duplice situazione di necessità politico-istituzionale ed economico-finanziaria: da un lato, fare fronte all’imprevedibile emergenza in corso e, dall’altro, prevenire ulteriori e imponderabili pregiudizi di tenuta finanziaria (il pericolo dell’allarme dei mercati) e democratica (il rischio di una successiva ingovernabilità). Di qui, ancor di più, la modifica della dinamica tradizionale delle consultazioni presidenziali, cui ha corrisposto l’estensione della nozione degli atti di ordinaria amministrazione riconosciuti al governo dimissionario.

Nel primo senso, si pone l’iniziativa presidenziale dei due gruppi di lavoro programmatici (le c.d. commissioni dei “saggi”). Questi sono “organismi non formalizzati e di breve durata”, il cui compito non è quello di interferire nell’attività del Parlamento, o nelle decisioni che spettano alle forze politiche, bensì quello di formulare “precise proposte programmatiche che possano divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche”. 

Nel secondo senso, si pone la rassicurazione manifestata alla comunità internazionale dal Presidente della Repubblica sulla “operatività del governo tuttora in carica, benché dimissionario e peraltro non sfiduciato dal Parlamento”, il quale resta pertanto legittimato ad “adottare provvedimenti urgenti per l’economia”.

Si tratta, com’è evidente, di un’iniziativa del tutto eccezionale, la cui torsione del sistema parlamentare resta limitata nel tempo, nell’oggetto e nelle funzioni, in quanto giustificata dalla duplice necessità richiamata. A ben vedere, tuttavia, proprio l’eccezionalità in questione potrebbe favorire il buon esito dell’iniziativa, tramutandola nell’occasione irripetibile per portare a compimento le mancate riforme del trascorso ventennio e per concludere la travagliata transizione della «Seconda Repubblica».

Sul piano sostanziale, il breve tempo a disposizione e la consapevolezza della gravità della situazione istituzionale potrebbero indurre le parti politiche a convenire sull’essenzialità di alcune riforme improcrastinabili (sistema elettorale, riforma del Titolo V e del bicameralismo, costi della politica, ecc.); queste ultime, poi, potrebbero essere realizzate in sede parlamentare in base all’esito delle consultazioni del prossimo Presidente della Repubblica. Da tale punto di vista, per inciso, anche l’individuazione di una personalità il più possibile condivisa per la nomina della più alta carica dello Stato, potrebbe contribuire a favorire un clima parlamentare inclusivo e costruttivo.

Sul piano istituzionale, del pari, l’iniziativa presidenziale confermerebbe la lungimiranza dei costituenti, i quali disciplinarono il procedimento di formazione del governo in modo volutamente scarno e stringato, al fine di rimetterne l’attuazione alle future necessità politiche e alle determinazioni delle parti coinvolte. Fu proprio l’elasticità delle norme costituzionali a consentire la proposizione di formule governative inedite e politicamente significative, quali quelle approntate alla fine dei drammatici anni ’70 del secolo trascorso della «non sfiducia» e della «solidarietà nazionale» (III e IV Governo Andreotti); formule che permisero l’inclusione del P.C.I. in un accordo di maggioranza prima implicito e poi esplicito.

In tal senso, parafrasando la formula della «non sfiducia», a proposito della persistente vigenza del Governo Monti potrebbe parlarsi di un governo della «non fiducia»; vale a dire, di un Governo dimissionario e tuttavia ancora in carica, giacché investito di una fiducia mai revocata dalle precedenti Camere e non ancora rinnovata da quelle appena insediate, anche perché nemmeno richiesta. Benché del tutto inedita e straordinaria, la formula resta comunque inscritta nei limiti del parlamentarismo, permanendo integri e vigenti tutti i poteri di controllo e di garanzia costituzionalmente sanciti.

Per concludere, una così marcata separazione fra un Governo limitato alle poche urgenze dettate dall’emergenza economica e un Parlamento impegnato a realizzare le proposte programmatiche elaborate dal gruppo di lavoro istituzionale, potrebbe ripetere per molti versi l’esperienza verificatasi ai tempi dell’Assemblea costituente. In quel caso, nel pieno dell’emergenza postbellica i Governi De Gasperi ebbero il merito, fra l’altro, di favorire quelle condizioni di stabilità istituzionale necessarie a consentire un operato sereno e intenso all’attività costituente. E anzi, fu tale il contributo materiale arrecato nella specie, che il compromesso costituzionale raggiunto in Assemblea resse finanche alla nuova e avversa congiuntura geopolitica; con l’inizio della guerra fredda, infatti, la fuoriuscita del P.C.I. dalla coalizione governativa non incise sull’andamento dei lavori, i quali, paradossalmente, si conclusero con maggiore celerità e consapevolezza.

Nell’eccezionale, temporanea e per molti versi solo apparente separazione di compiti fra Camere e Governo, in definitiva, la necessità politico-istituzionale ed economico-finanziaria potrebbe tramutarsi in una virtù costituzionale. Per il bene del Paese.