Il presidenzialismo, in questa fase di disaffezione dalla politica e di concentrazione dell’informazione televisiva, è la riforma più pericolosa. Esso esprime l’immagine semplificata della democrazia come scelta popolare di un capo, per sua natura non rappresentativo della complessità e pluralità delle forze e degli interessi che confliggono nella società di cui solo il parlamento può essere sintesi”. Così Stefano Rodotà, insieme all’aristocrazia dei costituzionalisti italiani, si esprimeva in un appello pubblico di molti anni fa, con il quale si seppellì una delle tante “bicamerali” di cui sono lastricate le strade dell’inferno istituzionale in cui vive il paese.



L’opinione del professore, questa volta in compagnia dei “Comitati Dossettiani”, gagliardamente antagonista al processo di revisione che in questa legislatura si intendeva incardinare con l’avvio di una “Convenzione” per le riforme (forse ormai abortita), non è cambiata. La Costituzione accostata alle “dieci tavole” mosaiche che si venerano e non si emendano con l’evolversi della realtà sottostante. Al più si spolvera. Anche nella sua seconda parte, almeno per quanto attiene ai suoi pilastri del parlamentarismo puro (su base, possibilmente, proporzionale) e di una presidenza di mera garanzia per la quale, dovendone preservare il principio di irresponsabilità politica, è stata prevista una elezione di secondo grado in parlamento. 



Ora, mettiamo da parte per un momento il noto ossimoro tra politica e coerenzache avrebbe dovuto seppellire con una risata la perorata elezione, a furor di popolo, nel suo surrogato web su scala lillipuziana, del più feroce avversario di ogni investitura diretta del presidente della repubblica. 

Rimane però che se questo paese non avesse smarrito, oltre al raziocinio collettivo, ogni bussola semantica, dovrebbe ascrivere le posizioni come quelle del professor Rodotà, in relazione ai più stringenti temi dell’agenda politica del paese, quelli appunto istituzionali, al fronte “conservatore”.



Rectius, alla luce del ruolo assunto oggi dall’istituzione presidenziale, che ne ha determinato una chiara mutazione genetica nella costituzione materiale, la figura andava iscritta di ufficio al fronte “restauratore”. E tuttavia al profilo del degnissimo professor Rodotà si è ascritto il crisma dell’innovazione rivoluzionaria a fare da contraltare alla lisa figura del professor Giuliano Amato. Uno dei primi costituzionalisti a scrivere della crisi dei partiti ed ad ragionare “laicamente”, già nei craxiani anni ottanta, di elezione diretta del capo dello Stato avendo a modello la V repubblica francese. Uno dei più coerenti ingegneri costituzionali di una costruenda Europa federale. Vero discrimine oggi tra rivoluzionari (del possibile, una Europa politica) e conservatori (dell’impossibile, lo status quo). Eppure, nella permanente truffa delle etichette, Giuliano Amato è il “vecchio” (scarpone da mettere in soffitta) e Stefano Rodotà ed i movimenti che lo accompagnano il “nuovo”. 

Si, dobbiamo proprio avere perso ogni senso delle parole se si sono proposti “governi del cambiamento” per andare incontro a programmi elettorali da Italietta anni 70. Programmi basati su incrementi imponenti della spesa corrente (basterebbe un decimo delle proposte del partito delle Stelle a provocare voragini incolmabili nei conti pubblici), nuovo debito a sfidare la forza di gravità (e con l’aggravante della sfida allo stesso principio cardine della sua restituzione), meno ore di lavoro per tutti, pensioni ad età non in linea con l’evoluzione demografica, uscita dall’euro, svalutazioni competitive ed inflazione come linee guida di politica economica. Esattamente il modello che con l’entrata nella moneta unica il paese ha proclamato solennemente di voler abbandonare. Di volersi mettere alle spalle, convincendo prima se stesso, e poi l’Europa, che ormai il suo orizzonte, la sua testa, era nel nord del continente e non nel sud del mediterraneo. 

E’ mera questione linguistica. Prescinde dal merito. Si può pensare che una profonda modifica alla forma di governo non sia auspicabile. Che questi partiti siano capaci, avendone data sicura prova, attraverso una taumaturgica modifica della legge elettorale e qualche puntello alla figura del primo ministro, di dare al paese il governo efficiente che i tempi ed il mondo in cui viviamo richiedono. Si può pensare che ciò di cui ha bisogno l’Italia è percorrere la strada della “restaurazione utopica” del Movimento 5 Stelle. Di tornare ai bei tempi di finanze allegre, alta inflazione e periodiche svalutazioni, di quando (sospiro) “c’era lei” (la lira). Ma per favore, chiamiamo le cose con il loro nome.