Non c’era alcun entusiasmo sulle facce dei dirigenti del Pd che uscivano dalla sala della Fiera di Roma nella quale avevano incoronato Gugliemo Epifani segretario. Un dente da togliersi, un traghettatore verso un congresso che sarà ravvicinato, ma non troppo, un Caronte verso non si sa quale approdo.
È un partito in cerca di autore quello che si è affidato all’ex segretario della Cgil dopo le dimissioni di Pier Luigi Bersani. Un partito che esprime il presidente del Consiglio, ma che non riesce proprio ad amare questo governo, al punto da far ironizzare a Enrico Letta sul fatto che questo non sia l’esecutivo per cui si è battuto, e neppure “il mio Presidente del Consiglio ideale”.
Sul governo il più diretto è stato Matteo Renzi che senza perifrasi ha invitato i suoi compagni di partito al realismo: l’esecutivo possiamo o subirlo o guidarlo, ha scandito il sindaco di Firenze in un passaggio molto applaudito. Ma se lo subiamo – ha spiegato – regaliamo l’ennesimo calcio di rigore a Berlusconi.
Per restare nella metafora calcistica il Pd sembra oggi una squadra sempre in procinto di farsi autogol. Non tragga in inganno il quasi unanimismo che ha salutato la scelta di Epifani: dietro quell’86 per cento si nasconde una situazione esplosiva. Non solo dal palco non hanno preso la parola i mostri sacri, da D’Alema a Veltroni, sino a Marini e Fioroni. Il fuoco cova sotto la cenere, basti pensare che all’assemblea nazionale era assente circa il 30 per cento degli aventi diritto al voto e ci sono state pure un centinaio di schede bianche e nulle su poco meno 600 votanti.
Per molti, come Pippo Civati o Laura Puppato, questo governo non è il governo del Pd, anzi non è nemmeno un governo “amico”. Pure Rosy Bindi si è aggiunta alla lista sempre più lunga di quanti chiedono che in testa alla lista delle riforme vi sia la legge elettorale. A scopo precauzionale, spiegano, per essere pronti a ritornare al voto. E questo equivale ad accorciare drasticamente il respiro del neonato governo Letta. Un colpo notevole, che si aggiunge al tramonto ormai definitivo della convenzione per le riforme, anche perché senza intervenire con una riforma costituzionale sul bicameralismo perfetto nessuna legge elettorale è in grado di garantire insieme governabilità e rappresentanza.
In un simile quadro il compito che si delinea davanti a Epifani è davvero improbo. Imperativo categorico da qui al congresso di ottobre è quello di recuperare il dialogo con una base in fermento, come dimostrano anche le decine di giovani di “OccupyPd” arrivati sino alla Fiera di Roma per manifestare tutta la loro insoddisfazione.
Solo un clima più sereno consentirà che le scelte da compiere nei prossimi mesi non finiscano per lacerare il partito. Non va dimenticato che vi sarà, a norma di statuto, una fase interna, fra gli iscritti, e una esterna, con le primarie.
Epifani non si è nascosto le difficoltà quando ha auspicato un congresso vero in cui la discussione sia esplicita sulla linea politica, e non implicita, nascosta dietro i nomi ed i cognomi dei capi corrente, vecchi e nuovi. Il rischio del fallimento, per ammissione dello stesso segretario, rimane concreto. Il fallimento, ha detto, “di un progetto, perché se non offrì alla società uno strumento in grado di muovere una passione o rappresentare un interesse e tu sei visto come parte della crisi, quel partito non ha più nessuna funzione da svolgere”.
Certo, non sarà facile decidere se essere di sinistra, o di centro-sinistra, oppure quale sia il posto dei cattolici e dei loro valori in questo contesto. Sono però questi i nodi irrisolti che i democratici si trascinano sin dalla nascita della loro esperienza politica.
E a complicare il tutto c’è il governo da sostenere. Un governo che non ha alternative, sia secondo Epifani, sia secondo Letta. Il problema è quanto realisticamente possa durare tra Scilla e Cariddi, fra il Berlusconi inseguito dalla giustizia e il Pd che non riesce a provare trasporto. Tocca al presidente del Consiglio imporre un’agenda all’altezza e non far venir meno la tensione verso risultati concreti. Dall’abbazia di Spineto Letta conta di prendere la rincorsa e giocarsi tutto su due temi: da una parte la lotta alla disoccupazione giovanile, dall’altra la riforma della politica per far pace con un’opinione pubblica che degli sprechi della casta ha dimostrato di non poter e più.
Se Letta saprà imporre il giusto ritmo il suo partito non potrà tirarsi indietro. Il problema è che per allentare il rigore di bilancio serve una sponda in Europa. E per riformare la politica servono provvedimenti incisivi, non di facciata. Se questi due elementi mancheranno la vita del governo sarà brevissima. Se invece qualche risultato dovesse cominciare ad arrivare potrebbero essere smentiti gli uccelli del malaugurio che scommettono che il governo, al massimo, arriverà alla prossima primavera.