Con Guglielmo Epifani il Pd assicura un appoggio leale e competente al governo Letta proprio nel momento in cui deve elaborare e negoziare la nuova politica economica. Ma si tratta, appunto, di un mandato a termine: fino al congresso di ottobre. Dopo “le convergenze parallele” di Monti abbiamo ora il “governo amico” di Letta. Perché il Pd è costretto a ricorrere alle formule che usava la vecchia Dc quando doveva guadagnare tempo? In che cosa, esattamente, i dirigenti del Pd sono divisi? Destra e sinistra? Ex Pci ed ex Dc? Trentenni “rottamatori” e sessantenni “che resistono”? Non è chiaro. È mancata una analisi delle ragioni di crisi. Si avverte solo un generico clima di delusione per lo sbocco governativo.



Ma il fatto che il Pd, data legge elettorale e impraticabilità di altre maggioranze, debba venire a patti con il partito-rivale è un condizionamento abbastanza governabile. Nella storia nazionale e di altri paesi europei esistono vari precedenti di “grande coalizione” ed il responso è univoco: a rimetterci non è mai stato il gruppo parlamentare maggiore e che aveva la guida del governo dato che identità, visibilità e primato decisionale erano più che evidenti.



Inoltre il rivale-alleato è un partito di destra che però non è portatore di maggiore rigore ed austerità e non ha alle spalle né Stati Uniti, né Unione europea, né Confindustria, né Vaticano.

E allora: perché lo stato di crisi e addirittura di sconforto?

Si ha l’impressione che i dirigenti del Pd – e soprattutto i suoi parlamentari – siano alle prese con una sorta di “doppio mandato”. Da un lato c’è il mandato ricevuto dalle elezioni politiche e dall’altro quello ricevuto dalle “primarie”. Si tratta di due diverse platee che sembrano vissute come fonte di legittimità alternative. Esse presentano cioè aree di contenuto politico comune e sovrapponibile, ma per altri aspetti sembrano divergere e confliggere. E cioè mentre il mandato popolar-costituzionale è quello di governare l’Italia, il mandato popolar-militante è quello di “arrostire” Berlusconi.



Il mandato delle elezioni generali – più numeroso e più autorevole – dovrebbe essere prevalente. Ma la platea meno numerosa sembra più autorevole ed ascoltata. Per tre ragioni. 1. Le sue protesi mediatiche – dai tweet ai talk show televisivi – sottopongono l’eletto a sorveglianza e rendicontazione continue, “in diretta”. 2. Data la legge elettorale – con i parlamentari “nominati” e non scelti dal voto popolare – sono le “primarie” a decidere le graduatorie nelle liste bloccate del “porcellum”. 3. Il mandato esaltato ed estremista è più assolvibile: parlare della impresentabilità e della ineleggibilità dell’avversario è meno difficile del trovare soluzioni concrete.

Ma questa superiorità del mandato dei tweeter rispetto al mandato della Costituzione, sia pur giustificata dal porcellum, rispecchia una via di maggiore consenso tra gli italiani?

Il progressivo calo elettorale del Pd fu dovuto non solo a un exploit mediatico di Berlusconi, ma, forse, anche al fatto che, progressivamente, Pierluigi Bersani − che era stato un saggio presidente di Regione ed un efficiente ministro − si è messo a fare “lo smacchiatore del giaguaro”. Questa “doppiezza” di legittimità e di aspettativa sta determinando nel Pd paralisi o confusione. Secondo una direttiva la priorità è governare anche attraverso negoziati e compromessi per fuoriuscire dalla crisi; secondo l’altra c’è l’aspettativa di una “presa del potere”, di una “vittoria finale” che annientino irreversibilmente gli avversari.

Sostanza: il Pd rischia di inventarsi “muro di Berlino” e “fattore k” nei confronti degli alleati non avendo maggioranze alternative e con previsioni estremamente negative in caso di elezioni anticipate.

Forse i parlamentari del Pd, da qui a ottobre, più che rimanere incollati ai “messaggini” della “società civile” (che tutto semplificano e deridono), farebbero bene a leggere anche qualche libro e a riflettere su parole come queste che sono di uno dei più autorevoli (e amati da Repubblica) leader del Pci, anzi, della sinistra del Pci, e cioè Alfredo Reichlin: “Fu un errore pensare di far leva sulla ‘questione morale’ al fine di evitare la dura fatica di aggiornare la nostra analisi su una Italia che intanto si modernizzava e si integrava nel processo di globalizzazione. Oggi mi è più chiaro che il prezzo pagato è stato alto. (…). È da quel momento che comincia a dilagare anche nelle nostre file una cultura diversa di tipo radicale, confusamente movimentista, alla ricerca di nuovi valori e di ‘nuovi inizi’, oscillante continuamente tra moralismo e giochi politici di bassa lega, attenta non alla società ma all’opinione pubblica, in pratica all’opinione dei media. Risultato: l’incapacità della sinistra di pensare se stessa e, quindi, di pensare paese” (Il silenzio del comunisti, Einaudi 2002, pag. 58).