“Nessun nemico a sinistra”, il vecchio dogma leninista e staliniano, assorbito in toto dal PCI di Togliatti, è forse risultato come un monito nella testa dei massimi dirigenti del Partito Democratico nel giorno dei centomila che sono accorsi a Roma in Piazza San Giovanni raccogliendo l’appello della FIOM. Chissà quali sentimenti sono passati nella testa e nel cuore di Guglielmo Epifani, segretario traghettatore del PD, ma prima ancora ex segretario generale della CGIL, a sentirsi incalzare da Maurizio Landini, leader di una sinistra che non ci sta e che non si sente oggi per nulla rappresentata dai democratici. Ha usato parole taglienti come pietre, di quelle che colpiscono nel segno: “Siamo qui per cambiare il paese e per mandare a casa i responsabili dello sfascio”. 
Traduzione il nostro nemico rimane quella destra con cui il PD siede in questo momento al governo del paese. Da qui a dire che anche i democratici sono un nemico il passo è breve, anzi brevissimo. Contro il neo leader del PD è stato un tiro al bersaglio, da Vendola a Ingroia, da Cofferati a Barca, tutti parlano di occasione mancata. Il diretto interessato ha scelto di non esserci per non fornire alibi al centrodestra, ma paga un prezzo elevatissimo. E la sua giustificazione suona come parziale. “Quando una forza politica sostiene un governo – è stato costretto a spiegare – il suo primo imperativo è dare risposte alle persone che pongono problemi. Esattamente ciò che ha fatto il governo. Oggi in piazza si è detto ‘ripartire dal lavoro’, il governo è ripartito esattamente da quello”. 
Quindi, a detta di Epifani, essere o non essere in piazza fa poca differenza, quel che conta è la sostanza. E’ tutto da dimostrare che la percezione che ha l’elettorato di sinistra corrisponda alle parole di Epifani, e i dubbi sono più che legittimi. Il rancore nei confronti del PD potrebbe accrescersi ancora, ma è tutto da dimostrare che saprà coagularsi in un progetto politico alternativo e concorrente a quello democratico, che – intanto – deve imbastire un congresso che chiarisca qualcosa del proprio futuro. In teoria, gli spezzoni di politica e di società civile in grado di coalizzarsi ci sarebbero, basti vedere le presenze a piazza San Giovanni: FIOM, SEL, quei grillini che guardano a Rodotà, secondo il quale la maggioranza odierna mette a rischio la sinistra. A questo vanno aggiunti anche i rimasugli di Italia dei valori e di Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia. Per fortuna di Epifani, però, per il momento non si vedono né il progetto, né il leader in grado di catalizzare gli scontenti a sinistra del PD, attraendo magari anche una fetta della classe dirigente di largo del Nazareno.



Di conseguenza quel nemico a sinistra tanto temuto non è alle porte. Fra qualche mese, però, tutto potrebbe cambiare, e una fase congressuale balbettante aprirebbe praterie a chi vuol mettere in crisi il progetto democratico. Per Epifani si profila dunque una corsa contro il tempo: rimettere in carreggiata l’ammaccatissima macchina del PD prima che qualcuno tenti di mettere le mani sulle sue spoglie. Il clima interno è esplosivo, il partito sembra diviso su tutto. 
Sulle riforme, ad esempio, Pippo Civati e Felice Casson raccolgono firme fra i parlamentari per dire no a ogni tentativo di riformare la Costituzione al di fuori delle procedure previste dall’articolo 138, bocciando quindi ogni ipotesi di convenzione. Per la segreteria si registrano movimenti intorno ai nomi di Fabrizio Barca, di Gianni Cuperlo e di Sergio Chiamparino, mentre lo stesso Epifani non esclude del tutto l’ipotesi di restare nell’ufficio che fu di Bersani. E sullo sfondo rimangono le mosse dell’esponente più forte che i democratici continuano ad avere, quel Matteo Renzi che è forse l’unico in grado di tenere insieme l’anima moderata con quella di sinistra del PD. Da qui al congresso per i democratici la strada sarà tutta in salita, con il rischio concreto di perdere qualche pezzo per strada, anche per la necessità di sostenere un governo non amato, ma pur sempre guidato da uno dei leader del PD.

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