Il triste episodio di violenza nel quale sono stati feriti due carabinieri, dei quali uno in gravissime condizioni, manifesta un’eccedenza del male, una volontà omicida che è molto di più della rabbia compulsiva e dei gesti inconsulti che spesso caratterizzano le aggressioni ai parlamentari, comprese quelle realizzate in passato contro Silvio Berlusconi e quella invece recentissima (e per fortuna solo verbale) che ha toccato l’onorevole Dario Franceschini.
Non c’è tuttavia alcun dubbio di quanto il clima di scontro politico che apparentemente da mesi, ma in realtà da due decenni sta sfinendo il paese, bloccando ogni possibilità di confronto non predisponga materiali incendiari in questa direzione. Questa eclissi della politica che si sta spegnendo nel primato dell’insulto conosce almeno due varianti significative: quella del disprezzo verso la persona, umiliata oltre ogni umana decenza, e quella della delegittimazione politica della controparte, dove si tende a negare la validità del consenso che questa riscuote, in quanto lo si ritiene viziato da presupposti che ne mettono in discussione la sostanza legale.
Va in questa direzione, in ordine di tempo, l’insulto al governo da parte di un rappresentante del Movimento 5 Stelle che ha equiparato le trattative tra Pd e Pdl a quelle tra Stato e mafia: dove il primo, mi sembra di capire, rappresenterebbe lo Stato ed il secondo la mafia.
Ora, un confronto tra partiti in uno Stato di diritto implica un riconoscimento di legittimità implicita dell’avversario. Se quest’ultimo viene ritenuto esponente della mafia, vengono meno le premesse per un confronto e c’è solo lo spazio per un assalto al nuovo “Palazzo d’Inverno”, visto che con la mafia non si tratta, né tanto meno si discute o ci si confronta.
Il Movimento 5 Stelle obbliga a porre con forza una questione dirimente: occorre chiedersi fino a che punto la partecipazione ad un confronto elettorale in un paese democratico non implichi, necessariamente, un terreno di regole condiviso, un rispetto implicito delle istituzioni che è anche un riconoscimento esplicito delle cariche e delle funzioni. Si possono, oggettivamente, esigere spazi e ruoli di responsabilità in una struttura di rappresentanza comune, senza declinare, da qualche parte, gli elementi di condivisione, il tessuto comune di valori che si sottoscrivono? È vero che qualsiasi partito di governo deve rispettare e dare spazi opportuni alle opposizioni, ma è anche altrettanto vero che queste debbono in qualche modo riconoscersi nella casa comune della quale fanno parte, riconoscere i principi e le responsabilità concrete che questa comporta.
È assolutamente errato ritenere, come il Movimento 5 Stelle sembra fare, che un non affidamento di responsabilità sia la conseguenza delle proprie tesi politiche. Il partito radicale costituisce, a tal proposito un esempio eloquente. Questo partito ha ottenuto, per decenni, un riconoscimento unanime e trasversale, anche da parte di chi non ne condivide le tesi, proprio in quanto ha sempre fatto del rispetto pieno ed intransigente delle istituzioni democratiche il suo cardine fondamentale.
L’elemento dirimente non è pertanto costituito dai contenuti delle proposte che il Movimento 5 Stelle avanza, bensì dalla forma di indifferenza istituzionale che ostenta. La forma, arrivati ad un certo punto, diventa sostanza.
Ma c’è una considerazione ancora più generale da compiere: l’ingresso in una fase costituente richiede un linguaggio comune, un fronte di principi condiviso, cioè apprezzato e custodito come un prezioso bene comune. Fino a quando questo riconoscimento non è esplicito e permangono, al contrario, forme di disprezzo sovrano e di ostentata indifferenza il problema si pone in tutta la sua evidenza. In questa nuova fase che ci si accinge ad avviare i principi condivisi diventano il primo bene al quale non si può, né si deve rinunciare.