Nell’audizione del ministro Gaetano Quagliariello sulle linee programmatiche presso le Commissioni riunite affari istituzionali, è stato messo in evidenza come il tema delle riforme costituzionali accompagni il dibattito politico italiano da oltre trent’anni, con risultati spesso inferiori alle attese nonostante i grandi cambiamenti intervenuti nel sistema. Si è precisato che spesso è stato commesso l’errore di affidare l’intero onere dell’adeguamento del sistema al mutato contesto politico, sociale ed economico al solo cambiamento della legge elettorale. Pur riconoscendo che la legge elettorale costituisce un potente fattore di orientamento nella configurazione istituzionale, si è evidenziato come, per essere veramente efficace, la riforma elettorale debba essere inserita in un coerente contesto di norme costituzionali e regolamentari “che traducano il nuovo equilibrio istituzionale in una trama di poteri e di responsabilità … Viceversa, è stata proprio la scelta di affidarsi completamente alle sole virtù salvifiche del sistema elettorale la causa prima delle difficoltà e delle inefficienze che sono sotto gli occhi di tutti”.



Da questo punto di vista è chiaro che la riforma della parte organizzativa della Costituzione costituisce ormai uno dei passaggi essenziali per fronteggiare la crisi economica e sociale in atto: l’efficienza del sistema istituzionale condiziona la competitività stessa del nostro Paese. La nostra Costituzione – figlia nella sua prima parte di quel miracolo costituente che in virtù di un nobilissimo compromesso politico ha saputo sancire una magnifica espressione di principi e valori che non devono essere modificati – nella sua parte organizzativa è frutto anche di un compromesso definito dal particolare contesto storico di quegli anni e necessita oggi di essere modernizzata in relazione alla forma di governo, alla riduzione del numero dei parlamentari in conformità agli standard europei, alla rivisitazione in chiave di responsabilità dell’incompiuto federalismo all’italiana che ci è stato consegnato dagli errori della seconda Repubblica. 



L’attuale assetto è ingestibile: proprio da qui deriva gran parte della difficoltà a ridurre eccessi di spese e di rendite. Oltre 900 parlamentari, 20 Regioni, 110 Province, 8mila Comuni determinano un policentrismo anarchico privo di coordinamento efficace dove si alimenta spesso un localismo conflittuale in cui il diritto di veto finisce per bloccare qualunque riforma. Prevalgono così frammentazione e incertezza del diritto. Si tratta di esigenze di modernizzazione così evidenti che rendono fuori luogo arroccarsi in visioni estremiste di conservatorismo costituzionale, peraltro ampiamente superate dalle indicazioni contenute nella relazione finale del gruppo di lavoro sulle riforme istituito dal presidente della Repubblica.  



Riguardo alla legge elettorale il ministro ha quindi giustamente precisato che non avrebbe senso compiere oggi una scelta stabile in favore di questo o quel sistema elettorale senza prima aver definito la meta del percorso riformatore (come si fa, ad esempio, a definire la legge elettorale in via stabile se non si è presa una decisione sul bicameralismo paritario o sulla forma di governo?). 

Questo ovviamente non esclude che possa essere opportuno intervenire in modo limitato sulla legge elettorale vigente sin da subito, al fine di eliminare i più evidenti difetti della stessa, peraltro autorevolmente evidenziati dalla Corte costituzionale e dal presidente della Repubblica. In altre parole si può trattare di un intervento di “salvaguardia” che consenta innanzitutto di rimediare ai difetti macroscopici della legge elettorale vigente, sterilizzando il problema (reso non più rinviabile anche per la remissione da parte alla Corte di cassazione della questione di legittimità costituzionale sulla legge stessa) e rendendo più fluido e proficuo il lavoro sulla riforma complessiva.

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