Due pesanti bastonate in una volta sola. Ieri, in un’unica giornata, è uscita le motivazione della sentenza d’Appello sui diritti Mediaset (in cui Berlusconi è stato condannato a quattro anni di reclusione e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici per frode fiscale) e quella della Cassazione relativa alla decisione di non trasferire i processi Ruby e Mediaset a Brescia. Nella prima, si afferma che «vi è la piena prova, orale e documentale, che Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale per così dire del gruppo B e, quindi, dell’enorme evasione fiscale realizzata con le società off shore». Nella seconda, invece, si lamenta anzitutto come le componenti del collegio giudicante che si sono espresse sulla causa di separazione da Veronica Lario siano state «superficialmente dileggiate» (Berlusconi le aveva definite “giudicesse comuniste”). E’ stato, infine, denunciato come l’istanza di trasferimento «piuttosto che da reali e profonde ragioni di giustizia, sia stata ispirata da strumentali esigenze latamente dilatorie». Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto e del Tg4, ci spiega perché c’è qualcosa che non quadra.



Come valuta le due motivazioni?

Posto che, benché sia doveroso dare per scontato che la Corte d’appello e la Cassazione non si siano di certo messe d’accordo, è comunque piuttosto curioso che entrambe le motivazioni siano uscite nella stessa giornata. In ogni caso, partiamo da quella relativa al processo Mediaset: già di per sé risultava abbastanza incredibile la sentenza di condanna in appello. Di conseguenza, lasciano ancora più perplesse le spiegazioni.



Perché?

E’ difficile credere che un gruppo aziendale che ha pagato centinaia di milioni di euro di tasse abbia messo in piedi un marchingegno delinquenziale volto a evadere una cifra che corrisponde grosso modo all’1 per cento dell’importo versato. Il gioco non valeva la candela. Inoltre, Berlusconi ha lasciato l’azienda in mano a Piersilvio, di cui si fida ciecamente, e al suo più caro amico di sempre, Fedele Confalonieri. Avesse mai dovuto compiere qualsivoglia operazione, anche minimamente illegittima, sui bilanci dell’azienda, lo avrebbe fatto attraverso la linea di comando, trattandosi di persone di sua completa fiducia.



Cosa ne pensa, invece, delle motivazioni della Cassazione?

I giudici, nel respingere la legittima suspicione, si sono lasciati andare a giudizi di valore nei confronti dell’imputato e dei suoi legali che difficilmente sono ammissibili in una aula di tribunale. Nel merito, non so di cos’abbia ancora bisogno la Cassazione per spostare questi processi, dato che è vent’anni che Berlusconi viene messo sotto torchio a Milano. Resta il fatto che quand’anche l’ex premier avesse torto e la Cassazione lo ritenesse colpevole, la Cassazione avrebbe fatto meglio a spostare i procedimenti.

Perché avrebbe dovuto farlo?

Per dissipare ogni sospetto. In virtù di un ragionamento di politica giudiziaria, la Cassazione avrebbe potuto ritenere, infatti, che se Berlusconi è effettivamente colpevole, sarebbe dichiarato tale, al di là di ogni ragionevole dubbio, anche a Brescia. A questo punto, invece, dopo vent’anni di processi, sull’eventuale sentenza di condanna peserà l’accusa di politicizzazione.

 

Tutto questo potrebbe incidere sulla tenuta del governo?

Nel Pd esiste ancora un’anima fortemente antiberlusconiana, alimentata per decenni dai suoi dirigenti, i quali ritenevano l’antiberlusconismo l’unico collante del partito. Sarà difficile riportarla alla ragione. Tanto più che non perde occasione per emergere. Insomma, il Pd continua a concepirsi come partito di lotta e di governo, e cerca di barcamenarsi tenendo assieme le sue componenti benché siano schierate agli antipodi. Il Pdl, dal canto suo, continua ad affermare che il governo è al riparo da quello che succede nelle aule di tribunale e non vedo perché non dovrebbe mantenere la linea che ha sin qui osservato.

 

Le motivazioni della sentenza d’Appello rafforzano la tesi di chi ha sempre sostenuto che Berlusconi sia, oltre che il proprietario, anche il gestore di fatto delle sue aziende. Se così fosse, i fautori della sua ineleggibilità si sentirebbero confermati nelle proprie convinzioni, in base alla legge del ’57 che prevede che chi ha concessioni pubbliche non possa essere eletto

Votare l’ineleggibilità di Berlusconi significherebbe farlo fuori per via giudiziaria. Il che verrebbe vissuto come uno strappo talmente forte ai principi della democrazia che porterebbe alla catastrofe. Non si può escludere dalla politica una persona che rappresenta un terzo del Paese. C’è da sperare che il Pd si renda conto che si tratta di una strada non percorribile.

 

(Paolo Nessi)