Le decisioni adottate dal Consiglio dei ministri di oggi vanno lette attentamente e nel loro complesso. A differenza di quanto potrebbe sembrare a prima vista, non si tratta di una secca rinuncia al finanziamento pubblico dei partiti, decisione che sarebbe apparsa come una resa alla richiesta populistica che è invocata da una parte dell’opinione pubblica che si muove nella logica dell’antipolitica.
È evidente che la questione delle risorse finanziarie dei partiti è una questione centrale della democrazia rappresentativa: la provenienza delle fonti di finanziamento, l’ammontare disponibile e il relativo impiego sono temi che non possono essere eliminati con un semplice tratto di penna. La competizione democratica esige che vi sia una disciplina che assicuri una lotta politica ad armi pari. È dunque indispensabile – come dimostra l’esperienza degli Stati democratici occidentali, a partire degli Stati Uniti d’America – una normativa che consenta un qualche riequilibrio tra i movimenti ed i partiti in competizione. Tanto più nel mondo contemporaneo, sempre più “finanziarizzato”.
Ed allora la soluzione prefigurata dal Governo è quella di cancellare sì l’attuale disciplina – in cui, tra l’altro, il finanziamento viene ipocritamente spacciato come rimborso delle spese -, e al contempo di sostituirla con meccanismi di natura fiscale, fondati sulla libera scelta dei contribuenti. A tal proposito torna alla mente quanto venne introdotto – ma poi repentinamente eliminato – con la legge 2 gennaio 1997, n. 2. Era il cosiddetto “quattro per mille”, cioè quel sistema in base al quale i cittadini, in sede di dichiarazione dei redditi, indicavano i partiti o movimenti politici cui sarebbero stati distribuiti, in proporzione delle scelte così effettuate, quella quota del gettito erariale. Quel meccanismo, a ben vedere, rispondeva almeno a tre esigenze: la possibilità di predeterminare un ammontare ragionevole e non eccessivo di finanziamento pubblico; la libertà dei cittadini di stabilire i destinatari del finanziamento pubblico e la rispettiva quota; e l’instaurazione di un circuito di “valutazione” permanente dell’operato dei partiti da parte dei cittadini mediante l’indicazione di preferenza manifestata in sede di dichiarazione dei redditi. Un sistema ispirato ad analoghi criteri, insomma, condurrebbe i partiti ad accentuare la trasparenza verso l’esterno e l’uso responsabile delle risorse loro attribuite.
Naturalmente, è giusto che al rispristino di forme di finanziamento pubblico di provenienza “fiscale” debba corrispondere la predisposizione di severi strumenti di controllo e di vigilanza nei confronti dei partiti. Dunque va salutata con favore l’intenzione di stabilire “procedure rigorose in materia di trasparenza di statuti e bilanci dei partiti”.
Infatti la legge recentemente approvata, la n. 96 del 2012, non appare affatto sufficiente. Certo, ancora se ne devono vedere gli effetti concreti, ma la normativa appare sin troppo blanda e generica, così come molto deboli, ad esempio, sono gli strumenti operativi messi a disposizione della neo-istituita “Commissione per la trasparenza”.
Ben venga allora un complessivo intervento di ridisegno della normativa, che affronti senza timidezze la questione – anch’essa da non respingere con sufficienza – della disciplina dei partiti e dei movimenti politici. Basta guardare al di fuori dei nostri confini, e si trovano esempi ben funzionanti che potrebbero essere presi ad esempio, certo opportunamente adattandoli al nostro sistema politico-istituzionale e ai nostri principi costituzionali. La materia è molto delicata, ma se si riuscirà a respingere la facile demagogia, si potrà far avanzare la nostra democrazia.