A guardare l’ultima polemica tra stampa e Movimento 5 Stelle, tra i giornalisti e i “grillini”, si resta perplessi sul futuro del dibattito politico e culturale nel nostro Paese. Sul blog di Beppe Grillo è comparso un attacco molto duro nei confronti del Corriere della Sera e di un bravo giornalista come Pierluigi Battista per un suo editoriale, alla vigilia della tornata delle elezioni amministrative. Nel contrasto tra i “movimentisti” e il giornale di via Solferino è entrato, anche con una dichiarazione molto “pepata”, il direttore Ferruccio De Bortoli, che ha definito cittadino con la “c” minuscola chi “deve guardare sempre twitter per esprimere un’opinione”. In questo caso, dice De Bortoli, si ha un grado di elaborazione del pensiero molto modesta.



Si potrebbe liquidare l’intera questione con un paragone che ci riporta all’inizio degli anni Novanta, quando era la Lega Nord di Umberto Bossi a definire tutti i giornalisti italiani dei “pennivendoli” o degli “scriba di regime”. È quasi una costante storica il contrasto che si crea tra movimenti politici emergenti e i grandi organi di informazione nazionali.



Ma in questa occasione c’è qualche cosa di più sgradevole. C’è una violenza nelle parole, negli insulti (Battista viene chiamato “maggiordomo”), un astio nei confronti di un singolo giornalista che lascia veramente esterrefatti, che sembra una sorta di sentenza alla “gogna pubblica”. Quello che più colpisce è la pretesa che il giornalista, quando si occupa di te o del tuo movimento, debba necessariamente scrivere “quello che tu vuoi” o quanto meno non avanzi mai delle critiche troppo fastidiose. Altrimenti è uno che deve essere collocato in una sorta di “black list”. È capitato recentemente anche a Milena Gabanelli, prima promossa a “candidata al Quirinale” e poi relegata al rango di “traditrice” per un servizio scomodo sul Movimento 5 Stelle.



La democrazia e anche i contrasti tra politici, uomini pubblici e media sono importanti, anche necessari, persino utili, quando dal confronto, anche durissimo, non si sconfina in una contrapposizione sterile, in una sorta di “rissa per la rissa” che non porta da nessuna parte. Sapendo anche che ciascuno difende non solo il suo modo di vedere, ma anche la sua appartenenza, il suo punto di riferimento politico e culturale.

Beppe Grillo dice di essere il promotore di una “grande rivoluzione” pacifica? Bene, perché allora preoccuparsi di un giornale che ha un editore costituito da una quindicina delle realtà finanziarie più importanti di questo Paese che lui vuole rivoltare? 

Prenda atto della realtà e, senza dispensare scomuniche e sentenze “alla gogna”, faccia politica, faccia la sua battaglia democratica con argomenti più solidi degli insulti, se ne è capace, e non metta in scena la sua rissa quotidiana, che diventa solo una regressione culturale in un Paese civile.

Ci sono tuttavia altre considerazioni da fare in questa polemica da “strapaese”. La prima che viene in mente è quella della risposta del Corriere della Sera. Un tempo, il quotidiano di via Solferno era famoso per non replicare a nessuna critica o nessun attacco, proprio per non alimentare un “dibattito da taverna”. Oggi il Corriere risponde, replica. Si può dire che la forza dei nuovi mezzi di comunicazione obbliga il giornale di via Solferino a questa nuova scelta. Bisogna accettare il tweet, il pettegolezzo elettronico, il botta e risposta immediato come avveniva, a viva voce, ai tempi delle case con il ballatoio. È indubbiamente un problema, ma la scelta è opinabile.

La seconda considerazione è che sembra di vivere in una gigantesca “commedia degli equivoci”. I giornali non sono mai stati “veicoli di verità”, ma di opinioni, che devono essere letti con una necessaria capacità critica. Negli anni Settanta e Ottanta, sotto l’influenza del sindacato di sinistra dei giornalisti si strologò sulla cosiddetta “completezza e correttezza” dell’informazione. Nessuna regola ha mai garantito una simile obiettività che appartiene solo al campo delle utopie o al “verbo” della vecchia “Pravda” sovietica. Il primo equivoco sta quindi in questa pretesa, quella di ideologizzare il “giornale della verità” e di bollarlo come traditore se non la rispetta secondo i propri punti di vista.

Il secondo equivoco è quello di pretendere che gli organi di informazione si adeguino alle tue tesi, anzi che le esaltino, come se fossero stati fulminati sulla via di Damasco. E se non lo fanno, bisogna intimidirli, con insulti e campagne di controinformazione e di denigrazione. L’aspetto prevalente non è più politico, diventa moralistico. Anche in questa polemica emerge una sorta di “presunta diversità”, di “purezza” da rivendicare e da sbandierare. E anche in questo caso, occorre ricordare una vecchia frase di Pietro Nenni: “In materia di purezza, c’è sempre qualcuno, più puro, che alla fine ti epura”. È proprio questa la preoccupazione del futuro politico e culturale di questo Paese.