Nuovo look per la Lega: total verde. Verde da sempre di colore nella ragione sociale, ma adesso anche al verde di voti e verde di rabbia. Perché il turno parziale di amministrative consegna agli atti un Carroccio come uscito da uno scontro frontale: disastrato su un lungo asse padano che parte da Imperia per arrivare a Treviso, passando per centri come Lodi, Brescia, Sondrio, Vicenza. Nei principali Comuni padani al voto, la Lega deve accontentarsi di magre percentuali a una cifra, da un massimo del 9 per cento di Lodi a un minimo sotto il 5 a Vicenza. E con il rischio concreto di rimanere in tutti priva di sindaci, quando tra due settimane si disputeranno gli spareggi del secondo turno: perché neppure personaggi entrati nel pantheon laico del movimento, come il sedicente sceriffo Gentilini a Treviso, sono riusciti ad arginare la frana elettorale già iniziata con le politiche del febbraio scorso.
La crisi leghista è di trasparente evidenza. Il calo è massiccio, in termini sia percentuali che di voti assoluti. Alla vigilia, Maroni aveva spiegato che “ci basterebbe un aumento dello 0,1 per cento per salvarci”: non ha raccolto neppure questa briciola. Un’eventuale perdita di Treviso al ballottaggio (tutt’altro che improbabile: il candidato di centrosinistra è avanti di dieci punti) avrebbe del clamoroso, dopo vent’anni di incontrastato dominio leghista. E all’interno del movimento, riprende così sostanza la contestazione dei bossiani duri e puri contro la “linea delle scope” varata dal nuovo corso maroniano nella notte di Bergamo: dimenticando peraltro che “quando c’era Lui” il Carroccio aveva viaggiato a lungo intorno al 4 per cento, rimediando batoste in sequenza; e scordando gli scandali in serie che i recenti sviluppi del caso Belsito hanno riproposto in una chiave ancor più truce (incluso il panfilo ormeggiato in Marocco a disposizione di uno dei due cocchi di famiglia del senatùr). Così si rinfocolano le polemiche, solo temporaneamente attenuate nel febbraio scorso dalla conquista della Lombardia.
Sta di fatto che l’asso di picche giocato da Maroni, e cioè governare le tre principali regioni del nord, sembra una mediocre scartina, a fronte di un consenso elettorale pesantemente evaporato, e che neanche il flop dei grillini è riuscito a rianimare almeno in parte. In difficoltà appare lo stesso segretario, dopo essersi rimangiato la promessa di dimissioni dalla guida del movimento all’indomani dell’elezione a presidente lombardo: al punto da aver annunciato una sorta di transizione morbida nel giro di pochi mesi, peraltro cadendo nello stesso vizietto di Bossi, e cioè quello di designare per editto sovrano i suoi successori.
Certo, sempre meglio del Capo che voleva piazzare sul trono un figlio pisquano. Ma la scelta dei due più fidi scudieri, i segretari della Lombardia Salvini e del Veneto Tosi, non è stata digerita anche da molti leghisti ortodossi, che vorrebbero discuterne in un congresso vero anziché preconfezionato come usava ai vecchi tempi. Ad attizzare i malumori e le contestazioni sono i deludenti risultati che i due hanno portato a casa nei rispettivi territori. Né sembra pagare la linea della tanto deprecata alleanza-per-forza con un Pdl che, soprattutto nei due capoluoghi veneti dove si è votato, e cioè Vicenza e Treviso, si è squagliato come un gelato rimasto fuori dal freezer.
Ma se lo scontento è forte, non altrettanto lo è la proposta: al momento non si intravedono alternative credibili per il dopo-Maroni. E soprattutto, si continua a ignorare il fermento che c’è in una base stanca di doversi mobilitare a comando, per essere poi costretta ad assistere a un dibattito interno dei peggiori quanto deprecati vecchi partiti. Rimane inevasa, tanto per fare un esempio, la forte istanza di rinnovamento dal basso che era stata messa in circolo già mesi fa da due tra i più autorevoli esponenti del popolo leghista veneto, Marzio Favaro e Bepi Covre, e che aveva raccolto il consenso di tanti sindaci leghisti. Il guaio è che il tempo passa, e il Carroccio rischia di subire un progressivo sgretolamento, fino a ridursi a uno di quei sgangherati carretti che finiscono sotto la barchessa di qualche casolare. Mesto scenario, per quella Lega che ai tempi d’oro amava definirsi “la potentissima”.