Nessuno, ormai, cerca più di nascondere la frantumazione del Pd, troppo debole – affermava su queste pagine Piero Sansonetti – perfino per scindersi. I disastrosi tentativi di far eleggere alla presidenza della Repubblica Franco Marini, prima, e Prodi, poi, gli hanno dato il colpo di grazia, dopo l’esito a sua volta inaspettatamente negativo delle elezioni. Il partito, ora, tenterà di rimettere assieme i suoi cocci. E lo farà a partire dall’assemblea di sabato 11 maggio. Abbiamo chiesto al direttore dell’Unità, Claudio Sardo, quali sono le prospettive dei democratici.



In che condiziona versa, secondo lei, il Pd?

Non voglio abbellire il quadro né negare le sconfitte delle ultime settimane. Tuttavia, credo che il Pd resti oggi la principale “cerniera” tra il Paese e i cittadini e che le ragioni per le quali è nato – rispondere alla crisi democratica, tentare di unire il Paese e lanciare un nuovo progetto di sviluppo e solidarietà – siano ancora valide.



Restano le ragioni, ma il partito?

Beh, non dimentichiamo che in queste circostanze così difficili è proprio un uomo del Pd a guidare il governo; significa che la responsabilità del partito è ancora grande.

Esiste, in questo momento, una leadership?

No. Il Pd sta avviando una fase congressuale che porterà a definire una leadership attorno, verosimilmente, ad autunno.

Come si è giunti a questa situazione?

Il Pd ha lavorato nella fase finale della legislatura e nei mesi della campagna elettorale per costruire un progetto di governo che il risultato elettorale non gli ha consentito di portare a termine; ha, in seguito, tentato di proporre un governo di centrosinistra, contestualmente alla promozione di un lavoro comune sulle riforme. Tuttavia, Berlusconi, cinicamente, ha spinto sulle larghe intese (opzione prediletta anche da Grillo, perché gli avrebbe consentito di urlare all’inciucio) e sull’intreccio tra l’accordo per l’elezione del presidente della Repubblica e quello per il governo. In un quadro così frastagliato, i 101 franchi tiratori hanno determinato la sconfitta di Prodi e Marini. A questo punto, non vi era più alcuna soluzione plausibile se non quella che si è individuata.



Il governo di larghe intese potrebbe inasprire le divergenze e allontanare ulteriormente la fazione di sinistra del Pd?

Siamo in una fase di grande incertezza, indubbiamente, e questo può creare squilibri. Tuttavia, la distinzione tra chi proviene da una tradizione moderata e chi da una tradizione di sinistra non è così determinante. Certo, non si può negare che tra i gruppi dirigenti esistano dinamiche correntizie che discendono da antiche appartenenze. Ma sarebbe scorretto pensare che il Pd rappresenti due anime distinte che hanno optato per il compromesso. Il partito, al contrario, è animato da una profonda unitarietà.

 

Lei, allora, come definirebbe personaggi come Pippo Civati, Laura Puppato, Sandra Zampa, Sandro Gozi, o Stefano Fassina?

Questo elenco dimostra proprio quanto gli umori, le preoccupazioni, le difficoltà e le incertezze presenti nel partito non facciano riferimento a dinamiche correntizie vere e proprie; costoro, infatti, non si possono semplicemente definire come ex margheritini o ex Ds. Siamo, invece, di fronte ad una rappresentanza del disagio trasversale. Ripeto, il nucleo culturale e ideale resta intatto.

 

E’ vero che l’assemblea è stata rinviata a dopo la nomina dei sottosegretari in modo da poter disporre di un quadro degli equilibri interni?

Il Pd, semplicemente, non ha voluto anteporre le sue questioni interne al bene del Paese, e ha voluto mettere le sue risorse al servizio del buon funzionamento del governo.

 

Come sarà giocata la partita per la reggenza del Pd da qui al congresso? In molti sostengano che dovrà essere indicata una figura di garanzia per tutte le fazioni e che, quindi, nel prossimo congresso, non dovrà candidarsi alla segreteria.

In termini astratti, non è detto che sia meglio nominare un reggente che non si candidi al prossimo congresso; quel che è certo, infatti, è che comunque vada toccherà ad un ampia platea decidere chi sarà il prossimo leader del partito.

 

Renzi non la pensa allo stesso modo. Epifani, per esempio, di cui sta circolando il nome come ipotetico reggente in queste ore, metterebbe il sindaco di Firenze in un angolo.

Renzi ha sempre affermato che tra la candidatura alla guida del governo e quella alla guida del partito preferisce la prima; e che si candiderebbe alla guida del Pd solo se questa fosse propedeutica alla guida del governo. In tal senso, non è escluso che sia giunto il momento di non rendere più automatica la correlazione tra leadership e premiership. Forse, addirittura, è giunto il momento di affidare agli iscritti il compito di scegliere il segretario.

 

Abolire le primarie non snaturerebbe il Pd?

La natura del Pd riguarda la sua missione nei confronti del Paese. Non è un metodo che definisce un’identità. In ogni caso, ipotizzare che siano gli iscritti a scegliere il segretario, non rappresenta la fine delle primarie ma semplicemente l’indicazione di una platea diversa, in grado di legare l’elezione ad un progetto. Un tempo, si votavano le mozioni, oggi si può studiare un metodo analogo che valorizzi le proposte e non soltanto la capacità di ottenere più voti degli altri. 

 

(Paolo Nessi)