La vita, il pensiero, l’agire politico, l’umanità e la visione del mondo di Andreotti sfuggono a qualunque categoria. Forse, Roberto Formigoni, che lo conobbe da vicino, è quello che, nel descriverne l’essenza, ci è andato più vicino: «Non è stato soltanto una delle figure eminentissime della Dc, così come di un’intera fase della storia italiana; direi che, per andare ancora più alla sostanza, è stato un politico cristiano che non ha mai nascosto la sua fede e che, proprio in virtù di essa, ha saputo guardare alla realtà secondo verità, nell’assumere quelle decisioni che l’avrebbero cambiata. D’altra parte, se vogliamo usare una parola che descrive la sua politica, possiamo dire che fosse “realista”: Andreotti sapeva bene di vivere in un Paese in dalle grandi potenzialità inespresse e in rapida evoluzione in senso secolarista; fu un politico democratico che scelse con decisione l’occidente ma, al contempo, coltivò i rapporti con i Paesi che si affacciano sul mediterraneo». Abbiamo chiesto al senatore Formigoni di spiegarci in cosa consiste l’eredità politca del Divo Giulio.
In che rapporti era con Andreotti?
Lo conobbi ben prima di entrare direttamente in politica. Nel 1980, in particolare, quando ero presidente del Movimento Popolare (mi sarei candidato per la prima volta nel 1984, alle Europee) lo invitammo al primo Meeting di Rimini. In quel periodo conoscemmo le principali personalità delle Dc. Andreotti fu una delle persone con cui legammo di più. Oltre a lui, stringemmo un’amicizia con Aldo Moro, che nel 1973 venne al convegno di Cl Universitari al Palalido di Milano e, in seguito, con il giovane Cossiga.
Come considerava il Movimento Popolare?
Sapeva bene che non era una corrente della Dc, ma qualcosa di più vasto e radicato nella società; un movimento di giovani e meno giovani intenti a costruire una società rinnovata.
Come evolsero i rapporti con lui?
Quando, in gran numero, entrammo nella Dc (basti pensare che nel 1975 eleggemmo oltre 150 consiglieri comunali; nel 1976 entrarono alla Camera Nicola Sanese, Alberto Garocchio, Costante Portatadino, Andrea Borruso e Marco De Petro; nel 1980 fu eletto in Regione Lombardia Antonio Simone; in seguito divennero vice sindaci di Milano Peppino Zola e Antonio Intiglietta) Andreotti, assieme a Moro e Cossiga, restarono, nel partito, i nostri punti di riferimento.
Quale fu il contenuto politico dell’amicizia con Andreotti?
Condividemmo il suo essere cristiano a 360 gradi mentre, personalmente, imparai molto dalla sua straordinaria conoscenza dei rapporti internazionali; in particolare, poi, nel 1987, fu sottoscritto, su iniziativa del Movimento Popolare, il cosiddetto “Documento dei 39”: si trattò di un testo fondamentale per la storia della Dc, che venne firmato, tra gli altri, da Andreotti, Fanfani e Donat Cattain. Allora, vi erano tensioni, all’interno della Dc, provocate da coloro che avrebbero voluto che il partito si alleasse con il Pc e rompesse l’alleanza con il Psi. Il documento, che spiacque molto a De Mita, fu fondamentale per tenere la rotta: dovevamo restare nel campo di alleanze del centrosinistra, e non dare vita ad un compromesso storico con i comunisti che, nel 1987, non avrebbe avuto ragione di esistere.
Perché l’alleanza del ’76 fu lecita?
Nel ’76 si fecero quelle larghe intese che, oggi, sono tornate di moda; ma allora c’era il pericolo del terrorismo alle porte. Nell’87, invece, si sarebbe trattato di un’alleanza ideologica che avrebbe mortificato l’alleanza tra Dc e democrazie laiche.
A proposito di larghe intese: muore Andreotti nel momento in cui la Dc viene “riabilitata” e il governo è composto dai suoi eredi.
Vede, la politica ha bisogno di confronto tra gli opposti ma anche di capacità di farsi carico delle ragioni degli altri, di comprendere e rappresentare i problemi di chi non ti ha votato. Questa capacità di dialogo e mediazione è stata incarnata dalla Dc; in un momento drammatico come questo, è tornata ad essere una virtù indispensabile. Tale virtà è la principale eredità della Dc.
(Paolo Nessi)