Ma a me che sono innamorato, che sono in un letto di ospedale, che non arrivo alla fine del mese o che sono in Università alla vigilia delle elezioni, che cosa “frega” della morte di Giulio Andreotti? Domande come queste, dalla risposta apparentemente scontata e dal sapore molto populista, sono a volte necessarie. La storia, infatti, non si presenta mai come qualcosa di scomposto e frammentato, ma interpella sempre la totalità della persona. Il lutto di questi giorni, in tal senso, provoca alcune riflessioni tutt’altro che astratte. Certamente anche un ragazzino di tredici anni capisce che questo 2013 è un anno molto speciale. Non sappiamo ancora in che modo sarà giudicato sui libri di storia, ma siamo certi che l’avvicendamento per dimissioni di due Papi e l’intesa politica tra destra e sinistra italiana sotto l’egida di un rieletto Presidente della Repubblica non saranno eventi ignorabili, né derubricabili a notizie di folklore da collocare a bordo pagina. Il problema è che questi fatti possono rappresentare o un inizio nuovo per tutti o il canto del cigno di un declino dalle prospettive ignote. La morte di Andreotti, collocata nel contesto di questi mesi, suggerisce un’interpretazione certamente significativa, giacché il “Divo Giulio” ha rappresentato un mondo e una mentalità che si potrebbe riassumere col titolo di un incontro cui lo stesso Senatore a vita partecipò nell’estate del 2003 nell’ambito del Meeting di Rimini: “Ho imparato da tutti”. In quella frase ci sono quelle virtù di umiltà e di disponibilità all’ascolto dei dati storici, tipici nel bene e nel male della “strana saggezza dei democristiani”, che hanno portato Benedetto XVI a rinunciare al ministero petrino e il presidente Napolitano a esortare i partiti della Seconda Repubblica a unire le forze di fronte all’incombere del baratro istituzionale, sociale e politico. Non solo. In quelle parole c’è anche tutto l’inizio del ministero di papa Francesco e la critica intellettualmente più efficace a una società, la nostra, in cui il motto – almeno negli ultimi vent’anni – è stato l’opposto: “Non abbiamo bisogno di nessuno”. In forza di questa individualistica certezza abbiamo visto ascendere e implodere alleanze che facevano o dell’efficienza o della moralità le loro stelle polari, astri spenti da una crisi che nessuno ha saputo o voluto arginare davvero e che oggi ci fotografa quasi in ginocchio, più disperati che miseri. Di fronte a tutto questo il nostro popolo, mediante i suoi rappresentanti, deve certamente compiere delle scelte sostanziali, che passino dall’esigenza di una pacificazione nazionale a una più acuta comprensione della vocazione del nostro paese in seno alla nuova situazione globale determinata dell’emergere dei paesi asiatici e dal venir meno del ruolo universale di garanzia degli Stati Uniti d’America.



In una tale prospettiva le difficoltà non mancano. Per quanto riguarda la pacificazione, infatti, il processo si annuncia lungo e laborioso, giacché il nome di Andreotti, con quello di Giolitti, Mussolini, Craxi e Berlusconi, ci ricorda che il nostro paese fa fatica a fare davvero i conti con la propria storia e preferisce attribuire i possibili errori a una specie d’ipnosi collettiva che periodicamente colpisce il popolo “rozzo e non acculturato”. Mentre per il futuro, in particolare per la ricerca della nuova vocazione italiana, sappiamo benissimo che molto dipenderà dalla capacità dell’attuale classe dirigente di rigenerarsi e di fornire alla nazione un nuovo assetto istituzionale in cui le forze sociali e politiche della società possano esprimersi e confrontarsi seriamente, al netto degli slogan e degli steccati. Così, se questa è la prospettiva che la morte di Andreotti apre, fa sinceramente effetto vedere le manifestazioni di giubilo in rete per un altro membro della casta che viene meno. Dimostrano ancora una volta quanto siamo stati resi prigionieri, “incattiviti” secondo l’etimo latino, dalle nostre idee e dalle nostre visioni ideali del mondo. Al punto che una persona che esulta per la morte di un’altra persona poi che cosa può dire alla vita di suo figlio o al dolore della propria madre? Uno che sceglie da chi imparare, eliminando le persone scomode dal proprio orizzonte vitale, come fa poi ad amare con libertà o a costruire saldamente qualcosa? Noi non abbiamo bisogno di eroi, e in questo aveva ragione Bertolt Brecht, ma abbiamo bisogno di uomini. Persone riconciliate con la propria storia e la propria umanità che sappiano ascoltare questo nostro tempo e indicare a tutti una strada matura e responsabile. Con la morte di Andreotti è certamente finito il lungo dopoguerra italiano, forse anche il nostro stesso novecento cattolico, ma non è certamente terminata l’eterna sfida che ogni giorno la realtà ci propone. Per questo, più di prima, abbiamo bisogno di imparare da tutti. E questo non dipende da nessuno. Solo dalla libertà del nostro Io.

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