Inizierà a riunirsi da mercoledì la Commissione degli esperti sulle riforme istituzionali, che avrà il compito di fornire al governo le sue conclusioni entro l’ottobre prossimo. Nel documento finale elaborato dai saggi saranno contenute delle proposte specifiche per tutte le questioni sul tavolo, dal presidenzialismo alla legge elettorale, dal federalismo ad altre modifiche della Costituzione. Quindi la parola passerà al Comitato composto da 40 parlamentari, nominati dai presidenti di Senato e Camera e scelti tra i membri delle due commissioni per gli Affari costituzionali. Il Comitato si riunirà fino al febbraio prossimo, ed entro il maggio 2014 si arriverà alla discussione in prima lettura alla Camera della riforma istituzionale. Dopo la ratifica da parte del governo del disegno di legge costituzionale che traccia la road map delle riforme istituzionali, il ministro Gaetano Quagliariello ha sottolineato che “l’iter delle riforme si dovrà concludere in 18 mesi”. Ilsussidiario.net ha intervistato il professor Beniamino Caravita, uno dei membri della Commissione degli esperti sulle riforme istituzionali.



Partiamo dal nodo del Senato che, secondo la Costituzione, deve essere eletto su base regionale. Come si supera quest’ipoteca su qualsiasi possibile legge elettorale?

Il problema del bicameralismo perfetto riguarda in particolare il fatto che ambedue le Camere partecipano paritariamente al rapporto di fiducia con il governo e al procedimento legislativo. Se il Senato, ancorché eletto su base regionale, continua a rappresentare la nazione, è difficile poterlo escludere dal circuito della fiducia. E se le Camere sono in posizione di parità, c’è un rischio permanente che qualsiasi legge elettorale dia esiti contraddittori tra le due Camere, rendendo il paese ingovernabile. Se invece si decidesse che il Senato rappresenta le Regioni (ovvero anche le autonomie locali), sarebbe consequenziale escluderlo dal circuito della fiducia, modificando la Costituzione in tal senso. In tal modo, il tema della legge elettorale che si applica al Senato diventerebbe meno problematico di quanto lo sia oggi.



Lei quindi è a favore di un’abolizione del bicameralismo perfetto?

Questo è un tema sul quale c’è un consenso se non generale, sicuramente molto ampio.

L’instabilità degli ultimi governi italiani è stata la conseguenza di un problema politico o del nostro assetto istituzionale?

L’Italia ha evidentemente un problema politico, perché ha un sistema dei partiti che non ha retto alle trasformazioni degli ultimi 30 anni. Dopo la caduta del Muro di Berlino, il sistema dei partiti italiani si è sostanzialmente dissolto. E’ però evidente che siamo di fronte anche a un problema istituzionale, rispetto al quale è difficilmente eludibile il tema di una riforma che riorganizzi il nostro sistema. Occorre lavorare tanto sulla riorganizzazione del sistema politico, quanto sulle modifiche costituzionali.



 

Quindi lei è a favore del presidenzialismo?

La consequenzialità che pone lei non c’è. Io potrei anche essere d’accordo con l’elezione diretta del presidente e i riequilibri che ne deriverebbero, ma non c’è un legame di necessità tra il semipresidenzialismo e il rafforzamento e la razionalizzazione del sistema istituzionale. I modelli possono essere diversi, tanto è vero che in Spagna, Germania e Gran Bretagna c’è una forma di governo parlamentare. Gli esempi cui fare riferimento da un punto di vista tecnico e istituzionale possono essere tanti. Noi ragioneremo su ciascuno di questi modelli e poi il Parlamento deciderà.

 

Si sarà però fatto un’idea su quale di questi modelli ritiene il migliore …

Ne parleremo in commissione.

 

In Italia si è passati dal vedere il federalismo come la soluzione di tutti i mali, all’idea che gli enti locali siano solo fonte di sprechi. Quale equilibrio può essere trovato tra queste due istanze?

Sono due temi diversi. La costruzione di un assetto decentrato della Repubblica italiana, all’interno del processo federale europeo, rimane sempre sul tappeto. Il problema degli sprechi non riguarda solo gli enti locali, ma anche l’intera spesa pubblica nazionale che essendo superiore al 50% del Pil è sicuramente eccessiva e comunque poco efficiente. Si tratta di una questione che va posta quindi tanto a livello locale quanto a livello nazionale.

 

Ritiene che i procedimenti disciplinari a carico dei magistrati vadano tolti al Csm e affidati a un organismo imparziale?

Per tutte le magistrature esistono degli organi di governo autonomo, composti da membri togati e membri laici (anche se in genere con una ampia maggioranza di togati), ai quali sono già affidate le valutazioni disciplinari. Quindi già nell’assetto vigente i problemi disciplinari non sono affidati a un giudizio dei soli magistrati, che potrebbe risultare corporativo. Naturalmente, anche su questo punto sono possibili – nel rispetto della Costituzione – diverse soluzioni.

 

(Pietro Vernizzi)