Se qualcuno aveva dubbi sulle intenzioni di Enrico Letta da oggi avrà forse le idee più chiare. “Questo governo è eccezionale e irripetibile, e il suo compito è rendere di nuovo praticabile il terreno di gioco”, ha detto il presidente del Consiglio dal palco del Festival dell’Economia di Trento. 

Chi temeva per il bipolarismo, oppure addirittura adombrava velleità di dar vita a una nuova formazione politica, può dormire sonni tranquilli: fra il tentativo di Letta e quello del suo predecessore Monti c’è un abisso. Quello era il governo di emergenza di un gruppo di tecnici chiamati a salvare il paese che poi hanno voluto trasformarsi in partito. Questo è una convergenza di politici che tentano insieme di superare una fase critica, con l’intenzione fra breve di rientrare nei ranghi dei rispettivi schieramenti, che nessuno ha intenzione di rinnegare.



Tra quanto questo ritorno avverrà è la vera incognita di questa fase politica. L’impressione è che sia chiaro l’approdo (riforma della politica per renderla più in grado di decidere e ripresa economica), ma che sia ancora buio fitto per quanto riguarda i percorsi necessari a centrare questi obiettivi. 

È lo stesso Letta ad alimentare più di un dubbio, teso com’è a schivare tutti quei temi che potrebbero costituire mine deflagranti sotto il passo del suo governo. Sono state messe tra parentesi per questo questioni scottanti come la riforma della giustizia, oppure la legge elettorale transitoria, quella clausola di salvaguardia anti Porcellum su cui da giorni si accapigliano Pd e Pdl.



A Trento Letta ha delineato obiettivi ambiziosi, tanto in materia economica, quanto nel campo delle riforme istituzionali. Ridurre sotto il 30% la disoccupazione giovanile, detassazione per i nuovi assunti, revisione del modulo universitario del tre più due, spending review, razionalizzazione degli aeroporti e delle fiere sono solo alcuni dei punti indicati come necessari per far ripartire l’economia. E, quanto alle riforme, superamento del bicameralismo paritario e revisione del titolo V della Costituzione, con approdo preferito a un modello simile al semipresidenzialismo alla francese. Di sicuro, ha detto Letta, mai più il presidente della Repubblica dovrà essere eletto con questo sistema, su cui – lo ammette lui stesso – il suo Pd è esploso.



Lista lunga, qualcuno dice anche troppo. Per attuarla, almeno per una parte significativa, serve una forte volontà politica, merce rara in tempo di crisi economica e di partiti deboli, anzi debolissimi. Nonostante i falchi nel Pdl non manchino, il premier può stare relativamente tranquillo. Silvio Berlusconi non sembra intenzionato a mettere in discussione a breve il il sostegno all’esecutivo di grande coalizione. Certo, non mollerà mai la presa e alzerà sempre il tiro sui contenuti, Imu in testa, perché quello che il Cavaliere proprio non può permettersi è la palude e l’inazione del governo.

Anche da Scelta Civica, per quanto irrilevante sul piano dei numeri, altro non potranno venire che incitamenti all’esecutivo e al suo presidente. Dove, invece, il terreno si fa pericolosamente cedevole è dalle parti del Pd. La fase congressuale che si è aperta con la scelta di Gugliemo Epifani come traghettatore sarà densa di insidie per il governo. In un partito che esprime 293 deputati e 108 senatori si annidano gruppi sempre più irrequieti. Non solo gli innovatori alla Civati, ma anche, e forse soprattutto, Matteo Renzi ed il suo folto seguito.

Letta fa mostra di tranquillità e si aiuto definisce il primo sostenitore del sindaco di Firenze, limitando le differenze appunto al campanilismo fra il capoluogo toscano e la sua Pisa. Il “basta vivacchiare” sibilato da Renzi è suonato a Palazzo Chigi come una sorta di ultimatum, e non lascia presagire nulla di buono per il prossimo futuro. Il timore di Letta e del gruppo dirigente del Pd è che il sindaco tema di consumare la sua leadership nell’attesa della sua occasione, attesa che nelle intenzioni del premier dovrebbe protrarsi per circa due anni, per compiere il percorso delle riforme costituzionali. 

Renzi ha però dinanzi a sé un bivio: decidere che cosa fare nella contesa per la segreteria del Partito Democratico, che è ormai aperta. A quella corsa, che dovrebbe prevedere le primarie, Letta non potrà iscriversi, ma certo uscirebbe indebolito da una vittoria renziana. Il diretto interessato sinora ha sempre smentito con forza di essere interessato a fare il capo partito. L’unico suo interesse è correre per Palazzo Chigi. Il fatto però che quella corsa appaia oggi troppo lontana potrebbe convincerlo a cambiare idea. In fondo, correre per la segreteria del Pd potrebbe essere la maniera migliore di accorciare l’attesa.