La condanna del giudice di Milano nei confronti di Silvio Berlusconi è un ulteriore sintomo della grave instabilità politico-istituzionale che da qualche anno ha colpito l’Italia. Dobbiamo domandarci cosa possiamo fare per porre rimedio a una situazione così compromessa.
È sufficiente la strada delle riforme che si sta predisponendo dall’inizio di questa legislatura? Nel documento dei saggi nominati dal Presidente Napolitano vi erano spunti di riflessione comune sui rapporti tra la politica e la giustizia. Qualcuno, ottimisticamente, aveva immaginato che una sorta di pacificazione fosse alle porte. La nascita di un Governo sostenuto in via eccezionale dai due schieramenti contrapposti, poi, aveva lasciato intravvedere la possibilità di un compromesso onorevole che non lasciasse vittime sul campo. Ma si trattava con tutta evidenza di un periodo ipotetico del terzo tipo. La ragione è semplice: tanto più le forze politiche si compattano, tanto più le giurisdizioni si sentono accerchiate. Così, il circuito dei poteri non raggiunge il punto di equilibrio tra forze distinte, ma si destabilizza in un crescendo di reciproche accuse, di alti proclami, di minacce più o meno manifeste.
La questione, si potrebbe dire, è data dalla distanza ormai antropologica, più che culturale, che separa la politica dalla giurisdizione. I giudici rappresentano forse l’ultima istanza realmente autoreferenziale del sistema istituzionale; invece il ceto politico, anche perché plasmato sempre più confusamente dai nefasti meccanismi elettorali, è quasi evaporato. Si è confuso nella cosiddetta società civile, è stato annichilito a livello territoriale ed è praticamente svanito a livello centrale. Il Parlamento della XVII legislatura è la plastica dimostrazione della debolezza delle nostre istituzioni rappresentative: chi segue i lavori parlamentari scorge tanta buona volontà, ma altrettanta incapacità decisionale.
Sino a quando il Parlamento sarà vittima di sé stesso, di procedure barocche e di regolamenti pensati per un mondo del tutto diverso dall’attuale, non avrà scampo. Come confrontarsi davvero con l’Europa, come affrontare con risolutezza la questione cruciale del debito pubblico, come definire con chiarezza la politica estera dell’Italia, sono temi centrali per la nostra comunità.
Eppure, ben pochi vi stanno pensando. E chi agisce lo fa all’oscuro del Parlamento. Quanti hanno davvero contezza dei rapporti di forza in seno all’Unione europea? Quanti conoscono le ragioni effettive che sono alla base dell’attuale processo di impoverimento della nostra collettività? Senza decisori politici capaci e competenti non c’è futuro per la Nazione.
È difficile credere nell’auto-rigenerazione della rappresentanza politica, ma questa rimane la nostra sola speranza. Parimenti, è difficile credere all’auto-limitazione della giurisdizione, ma questo è un obiettivo cruciale che deve essere perseguito nel bene comune. Peraltro, tenuto conto del deterioramento ormai raggiunto, servirebbe tempo per vedere gli effetti concreti di un tentativo riformatore che si limitasse ai “rami alti” dell’ordinamento. Ciò che occorre è anche un immediato mutamento dei comportamenti dei protagonisti del conflitto in corso. E per ottenere un qualche risultato, si deve auspicare che si ponga rapidamente mano a quelle regole di rango legislativo che consentono alle diverse parti in causa di agire in modo scorretto. Non si può più attendere.