Stabilità istituzionale e fibrillazione politica sono, al tempo stesso, l’immediata conseguenza del risultato delle ultime elezioni. 

Da un lato l’accordo Pd-Pdl non ha visto il rafforzamento della protesta, ma, al contrario, la sostanziale sconfitta politica dell’opposizione sia di destra sia di sinistra: il movimento di Beppe Grillo, escluso da tutti i ballottaggi, non minaccia nessun accerchiamento e la Lega cerca di mettere a fuoco un suo riposizionamento. Né da destra, né da sinistra l’opposizione è quindi con il vento in poppa. Il vero problema è, semmai, l’astensionismo.



Ancora una volta infatti, come è successo nei precedenti casi italiani ed europei, la “grande coalizione” vede premiato chi ha la guida del governo. Il premier delle larghe intese – soprattutto in questo caso in cui è stato scelto dal Quirinale sull’onda della riconferma plebiscitaria di Napolitano – si presenta come leader di una tutela nazionale. 



Il governo – è il commento unanime degli osservatori – si è rafforzato e si dà quasi per scontato non solo che arrivi alle elezioni europee del 2014, ma che possa proseguire anche oltre, in coincidenza con la presidenza italiana del primo semestre della nuova legislatura del parlamento di Strasburgo.

Ma è appunto questa stabilità e la prospettiva di una durata di oltre un anno a determinare la paura di “invecchiare” e a mettere in fibrillazione settori importanti del Pd e del Pdl.

In questo momento la fibrillazione maggiore è certamente in seno al Pd mentre nel Pdl, dove esiste un’indiscutibile leadership di Berlusconi, tutto sembra rinviato a quando sarà meglio definito lo scenario giudiziario soprattutto per quanto riguarda l’interdizione di Berlusconi.



A sinistra invece, a cominciare da Renzi, si avverte il rischio è di essere rottamati dal perdurare di Letta.

È evidente infatti che la stabilità di governo ha come “effetto domino” il rafforzamento di Epifani alla guida del Pd e la prospettiva di Letta come candidato premier alle prossime elezioni. A meno, però, che non venga travolto, prima del congresso del Pd, da una improvvisa crisi che cataloghi come infausto evento il suo governo. Ed è appunto in questa direzione che sembra proiettato il sindaco di Firenze che in una sola settimana ha evidenziato e moltiplicato, giorno dopo giorno, i  segnali di nervosismo, insoddisfazione e denigrazione verso l’“amico Letta”. 

E qui veniamo alle ragioni che possono incoraggiare i propositi di destabilizzazione. Paradossalmente il voto ha sì rafforzato Letta, ma ha anche al tempo stesso rilanciato la possibilità di una sua sostituzione senza elezioni anticipate. 

I gruppi parlamentari di Camera e Senato del M5S sembrano ora molto più incerti ed uno smottamento di alcuni di loro (bastano i senatori che hanno già votato per Pietro Grasso presidente di Palazzo Madama) a favore di un governo di sinistra con Pd e Sel è una ipotesi meno fantapolitica. 

È in questo quadro che si verifica la novità di un riposizionamento più a sinistra di Renzi nell’attacco a Letta, come emerge dall’appoggio che egli ha dato alla protesta anti-tav arrivando a sostenere che la Torino-Lione è un progetto “superato” e che il tracciato potrebbe essere modificato passando − addirittura − in territorio ligure. 

Pensare che l’agitazione ruoti intorno ad ambizioni personali del giovane sindaco di Firenze può essere però una svalutazione imprudente. Gli attacchi mossi a Renzi, ad esempio, in quanto ex democristiano risultano non convincenti e sbagliati. La matrice “ex democristiana” del sindaco di Firenze è, semmai, nel richiamo all’ex sindaco di Firenze La Pira e a Dossetti.

È in altra direzione che va considerato un disegno di destabilizzazione in cui il “rottamatore” può essere solo uno degli attori. E cioè: sempre più, in questa martellante contestazione dell’assetto di governo in cui il presidente della Repubblica si è esposto in prima persona, si allungano da più parti ombre contro il Quirinale. 

L’obiettivo della destabilizzazione non è semplicemente un cambio della guardia interno al Pd alla guida del governo, ma provocare una messa in crisi della maggioranza fatta nascere per due volte dal Quirinale guardando anche oltre Palazzo Chigi. 

C’è chi spera di determinare in Parlamento quella situazione di scontro e di spaccatura totale di fronte alla quale Giorgio Napolitano ha già annunciato alle Camere che avrebbe reagito con le dimissioni anticipate. 

La convocazione del Capo dello Stato per essere interrogato in aula di tribunale su Stato e mafia (contro cui ha vanamente protestato il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Michele Vietti, definendola “una mancanza di rispetto” che “non serve ad accertare la verità”) viene a collocarsi in questo quadro.