Una versione e il suo contrario. Ha cambiato radicalmente idea Matteo Renzi sulle primarie rispetto a diciotto mesi fa. Nella sfida con Bersani lottò perché non valesse la previsione statutaria che il segretario fosse automaticamente il candidato del Pd alle primarie di coalizione per la premiership. Oggi, quando si discutono le regole della consultazione che sceglierà il nuovo leader dei democratici, il sindaco di Firenze sostiene che il vincitore dovrà essere anche il candidato per Palazzo Chigi. 



È cambiato il quadro rispetto ad allora, e Renzi sente puzza di trappola. Nella discussione sulle regole congressuali ha rovesciato il tavolo e aperto lo scontro. La sua uscita è un pugno sbattuto sul tavolo del partito: Renzi sa di essere il candidato più forte, e vuol scendere il campo solo alle sue condizioni. Ecco perché alla Frankfurter Allgemeine Zeitung ha detto di essere pronto a lasciare Firenze solamente “per cambiare l’Italia”. Di guidare il partito senza la prospettiva di correre per Palazzo Chigi non gliene importa praticamente nulla, lui – per sua stessa ammissione – non vuole cambiare il partito, ma il paese. E il partito diventa allora il trampolino per la sfida considerata più importante e più delicata. 



Sono parole pesanti quelle di Renzi, condite con la minaccia di non partecipare alla contesa. Parole che sono destinate a pesare in un dibattito interno fattosi sempre più caotico negli ultimi giorni. Nel corridoio che porta all’ufficio temporanemente occupato da Gugliemo Epifani si registra un ingorgo pauroso. Gianni Cuperlo, Gianni Pittella, Pippo Civati, ma forse anche Stefano Fassina e Debora Serracchiani potrebbero correre per la segreteria e tentare di sbarrare la strada a Renzi. Per ora cercano di mettergli i bastoni fra le ruote, perché in buona parte, Cuperlo in testa, sono favorevoli a mantenere separate le due corse, quella per la guida del Pd e quella per Palazzo Chigi. 



Il punto è dirimente, ed è inevitabile che intorno a questo la tensione salga, e sia destinata a salire ancora. Di questo il più preoccupato è il presidente del Consiglio Letta, perché se Renzi la spuntasse sulle regole taglierebbe fuori il premier da ogni ambizione di un bis. E se poi vincesse anche le primarie, il centrosinistra sarebbe praticamente pronto ad andare alle elezioni, accelerando la fine di una legislatura fragile come non mai. Renzi in questo potrebbe incrociare un interresse di Berlusconi coincidente con il suo, anche e animato da ben altre motivazioni, e il governo potrebbe contare i giorni che lo separano dalla propria fine. 

Da Renzi, del resto, sono arrivare parole solo formalmente rassicuranti. Letta viene definito come amico, solido, affidabile, competente e sostenitore dell’idea europea. Ma l’aggiunta è carica di veleno: “tutto quello che fa è pragmatico e non rivoluzionario. E nella nostra situazione i piccoli passi non bastano”. Ci vuol poco a capire che la vittoria di Renzi sarebbe un colpo mortale per la difficile impresa che il premier sta portando avanti. E questo nonostante l’ombrello protettivo costantemente aperto sull’esecutivo dal Capo dello Stato. Il gelo fra i due è evidente nell’assenza di repliche ufficiali da parte di Palazzo Chigi. I fedelissimi di Letta si limitano a dire che che per il premier “parlano i fatti”, cioè i primi provvedimenti concreti, considerati tutt’altro che piccoli passi.

Non è escluso che cresca fra i democratici la corrente favorevole a un rallentamento dei tempi congressuali, con lo scivolamento dell’assise alla primavera del prossimo anno. Renzi farà di tutto per evitare questa eventualità, ma di fatto questa è l’unica scappatoia per evitare l’indebolimento del governo. Difficile che il sindaco di Firenze si convinca dell’ipotesi, assai più probabile l’avvio di un braccio di ferro, come si è visto nel comitato chiamato a definire le regole, dove un folto gruppo ha chiesto di separare i congressi locali dalle mozioni legate ai candidati alla segreteria. 

Il tempo lavora contro il sindaco di Firenze, e lui ne è perfettamente conscio. Forse solo un forte intervento dei padri nobili, da D’Alema a Veltroni, potrebbe convincerlo della necessità di pazientare per qualche mese ancora.