La legge elettorale è uno strumento, la cui resa dipende essenzialmente dalla capacità del sistema dei partiti di collegare la volontà degli elettori alle istituzioni rappresentative e, notoriamente, quello italiano – da questo punto di vista – continua irrimediabilmente a funzionare poco e male.

Nel caso italiano, perciò, sarà difficile trovare un rimedio all’attuale legge elettorale che nel corso di questi anni di fatto tutti i partiti hanno conservato nella convinzione di poterne trarre il massimo del vantaggio grazie a quella peculiare disciplina del premio di maggioranza.



L’effetto perverso del premio si è manifestato nelle elezioni del febbraio del 2013 quando con un vantaggio di 124.858 voti, pari ad un +0,37%, la coalizione guidata dal Pd ha conquistato il premio alla Camera che ha portato la sua rappresentanza a 340 deputati, mentre la seconda coalizione, quella formata intorno al Pdl, si fermava a 124 seggi e il primo partito – Movimento 5 Stelle BeppeGrillo.it – otteneva solo 108 seggi e gli ultimi 45 seggi andavano alla coalizione guidata da Mario Monti.



Di fatto la legge elettorale dava luogo a una situazione d’ingovernabilità – dato il bicameralismo perfetto vigente nel sistema costituzionale italiano – per il differente modo di distribuire il premio al Senato. Infatti, com’è noto, per la Camera Alta il premio è attribuito su base regionale, anziché nazionale; di conseguenza, il Senato è risultato privo di una coalizione o di un gruppo di maggioranza. Di qui, la necessità di “tradire” i patti stipulati con gli elettori per dare vita ad un Governo con una maggioranza di “necessità”.

Le critiche così hanno investito l’attuale legge elettorale per la Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica e sono diventate un luogo comune della politica e dell’opinione pubblica e guai a non unirsi al “coro”. Ma, ripetiamo, il problema si situa nel sistema politico e non nella legge elettorale in sé, che – seppure pessima – funziona (o meno) in ragione del sistema politico che la presiede.



Dalle critiche è venuta fuori la proposta – culminata anche in una mozione parlamentare – di tornare alla precedente versione della legge elettorale, varata nell’agosto nel 1993, dopo il referendum del 18 aprile 1993, in una condizione altrettanto emergenziale come quella attuale. Infatti, stava morendo la prima Repubblica e stava nascendo, ahinoi, la seconda Repubblica.

Quella legge elettorale prevedeva una quota dei seggi, pari al 75%, attribuiti su base maggioritaria con collegi uninominali ed elezione ad un turno (secondo il principio first past the post) e il 25% dei seggi assegnati su base proporzionale con liste concorrenti.

La posizione che vuole il mattarellum migliore del porcellum è stata espressa anche in passato, ma ha lo stesso fondamento dell’idea praticata sinora – e chissà sino a quando – dai partiti politici di tenersi il porcellum.

Invero, per quanto strano possa sembrare, in una tendenza autenticamente “bipolare” il porcellum è risultato più efficace e meno opaco del mattarellum. Il disastro è derivato dalla circostanza che nelle elezioni del 2013 il sistema politico italiano si è modificato profondamente passando da una bipolarismo debole o forzato ad un quadripolarismo, la cui consistenza e, soprattutto, permanenza sono realisticamente problematici. Sino a quando dura Grillo? Il centro montiano si consolida o è destinato a essere riassorbito da un altro polo?

Le incertezze del quadro politico attuale non devono fare velo ai limiti dell’esperienza avuta con il mattarellum nel 1994, nel 1996 e nel 2001. L’idea di tornare alla legge del 1993 nel quadro attuale potrebbe, non solo non essere risolutiva, ma soprattutto complicare le relazioni tra i partiti politici. Si deve prendere atto che nel sistema politico italiano la frammentazione politica è rimasta nonostante i tentativi di convogliarla verso un sistema bipolare; e, se questo è il dato attorno al quale costruire un meccanismo elettorale migliore del porcellum, allora il maggioritario ad un turno non è il sistema più adeguato.

Lasciamo da parte la quota proporzionale, la cui funzione è molteplice e può convivere con la più elevata quota maggioritaria. 

La questione è proprio la quota maggioritaria. Come si è accennato, nelle tre tornate in cui è stato impiegato il mattarellum non ha ricomposto la frammentazione politica, ma ne ha esaltato i risvolti più negativi, soprattutto per effetto del modo di agire dei partiti coalizzati nei collegi uninominali. È noto che i piccoli partiti delle coalizione hanno potuto “ricattare” con il loro peso marginale i grandi partiti, minacciando candidature autonome, non in grado di vincere nel collegio, ma capaci di fare perdere il seggio al partito più grande alleato. In questo modo ottenevano una sopra-rappresentanza con l’attribuzione di collegi “sicuri” in misura maggiore rispetto al loro effettivo apporto alla coalizione.

Sostanzialmente una competizione con partititi piccoli e grandi in Italia, nella quota maggioritaria, è stata profondamente diversa da quella che si svolge abitualmente in Germania, dove i partiti – per principio – conservano la loro identità nella quota maggioritaria e in quella proporzionale. Il resto lo fanno gli elettori, sapendo che la competizione nei collegi uninominali risulta il campo di lotta privilegiato (ma non esclusivo) dei partiti più grandi.

Il tentativo di superare i vincoli perversi creati dalla frammentazione nei collegi aveva portato a modificare il sistema elettorale nel 2005, tentando un diverso maggioritario, basato non sul meccanismo elettorale maggioritario dei collegi, bensì sul premio di maggioranza alle liste coalizzate.

La persistente frammentazione lascia pensare che, nel caso di una riedizione del mattarellum, le forme di “ricatto” già praticate in passato si possano ripresentare nuovamente con quelle tensioni permanenti all’interno della compagine di Governo che hanno logorato tutti gli esecutivi che si sono susseguiti dal 1994 ad oggi, con il mattarellum e con il porcellum.

La via d’uscita, in una realtà in cui la frammentazione è una costante, anche se con una fisionomia in parte incerta, è quella di consentire a tutti i partiti di correre nella competizione elettorale, ma di non avvantaggiarsi nella distribuzione dei seggi più di quanto effettivamente meritano e di non essere così fonte di frizioni all’interno delle maggioranze di Governo.

Questo risultato si può raggiungere con sistemi elettorali diversi, ma non con il mattarellum. Di qui la sua insufficienza. La soluzione più prossima è sicuramente quella di prevedere il doppio turno nel caso di collegi uninominali. In questo modo viene meno la necessità di presentare nei collegi dei candidati di coalizione e la presenza di partiti piccoli e grandi finisce con il non alterare il gioco politico.

Si può discutere se, per compensare i partiti piccoli, sia necessario aumentare la quota proporzionale del mattarellum, e una soluzione in tal senso può essere condivisibile, purché sia salvo il principio della responsabilità diretta delle singole formazioni politiche.

Una diversa soluzione, ma altrettanto efficace, è quella offerta dal sistema proporzionale con clausola di sbarramento al 5% e, ovviamente, senza premio di maggioranza.

La partecipazione politica può continuare a essere alta e oscillare come è accaduto nel febbraio di quest’anno dal partito maggiore (M5S) con 8.689.458 voti, pari al 25,55%, sino al partito più piccolo con 556 voti pari allo 0,00%, passando per ben altre 45 liste, ma la rappresentanza potrebbe essere composta solo da quei partiti con un numero di voti sopra al 5%. Nel caso delle elezioni del 2013 solo 4 liste hanno superato la soglia di sbarramento.

Si può valutare se la soglia, per il sistema politico italiano, sia troppo alta e, perciò, proporre di ridurla al 4%; in questo caso si sarebbe aggiunta solo un’altra lista. Con 5 gruppi in Parlamento i cittadini possono vedere meglio l’effetto del proprio voto e individuare in modo efficace le responsabilità di Governo. Anche le coalizioni si avvantaggerebbero non poco della semplificazione che il sistema elettorale produrrebbe.

Verrebbero meno le tensioni interne alla maggioranza, con un migliore rispetto dei patti di coalizione che farebbe bene allo svolgimento del programma di Governo. Soprattutto, il timore di essere sanzionati dagli elettori obbligherebbe i partiti a tenere comportamenti più adeguati al loro ruolo istituzionale.

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