Giorgio e Francesco. Dopo quasi tre mesi dall’elezione del nuovo Papa e uno e mezzo dalla momentanea risoluzione istituzionale della crisi politica italiana, Italia e Santa Sede si sono date appuntamento e si sono incontrate. 

Ufficialmente la visita del Presidente della Repubblica al Papa rientra nella prassi di buon vicinato fra Nazioni, ma – di fatto – in questo piccolo evento c’è di più. Giorgio Napolitano aveva intrecciato con Benedetto XVI un rapporto del tutto personale, ricco di amicizia e di umanità. In molti, forse, ricorderanno le lacrime con cui i due cari amici si sono salutati lo scorso febbraio: quello con Ratzinger è stato senza dubbio, per Napolitano, un incontro con una Presenza che lo ha toccato profondamente e definitivamente. Il che risulta oggi un immenso paradosso: di fronte al Papa mediaticamente più amico, che le tv vorrebbero più popolare e di sinistra, il Presidente appare emozionato e teso a ricordare l’Altro, il Papa Emerito, quello “aristocratico e di destra”, che gli ha toccato il cuore. 



Come sono stupide le nostre classificazioni politiche. Napolitano ha il merito, indiscusso, di aver sempre inteso la relazione politica come una relazione tra uomini e non tra idee, una relazione non automatica né scontata, ma ricca di attenzione alla storia e ai fatti che la segnano. Per questo egli è diventato amico di Benedetto XVI e per questo, oggi, si presenta da uomo di fronte al Pontefice, col desiderio non di approfittare delle possibili consonanze ideali con i valori del proprio mondo, ma con la domanda – evidente – che riaccada quell’esperienza di bene e di positività che è stato per lui il rapporto col Papa tedesco. 



In forza di questo il discorso di Napolitano ha voluto fotografare senza alcuna banalizzazione la situazione straordinaria in cui lui, uomo delle istituzioni ormai da molti anni, si è trovato ad accettare il secondo mandato come Presidente della Repubblica. In quest’ottica di emergenza e di straordinarietà ha parlato di crisi, di espansione della povertà e di bisogno di pace per il nostro popolo. Lo ha fatto quasi ponendo questi problemi ai piedi del Papa, desideroso non solo di manifestare la stima che l’Italia già attribuisce al nuovo Pontefice, ma anche con l’implicita domanda di luce per questo immane ed improvviso cammino che, come Presidente, si è ritrovato ad affrontare. 



Papa Francesco non lo ha deluso. Egli infatti, anticipando le parole di Napolitano, ha contestualizzato il dialogo tra Italia e Santa Sede nella storia dei rapporti politici internazionali, ricordando implicitamente le ferite del Risorgimento, il “non expedit”, i Patti Lateranensi, la Costituzione e il Nuovo Concordato del 1984, e ha voluto offrire al Presidente tre riferimenti con cui oggi abbracciare e affrontare il presente. 

Infatti il Papa si è premurato di guardare i problemi dell’Italia nella questione più grande della “vocazione” del nostro paese in seno al consesso delle Nazioni: solo nella chiarezza della vocazione ogni povertà si definisce e ogni energia trova la sua giusta espressione. Affrontare i problemi di uno Stato, come quelli del singolo, al di fuori del tema del Compito che ognuno ha nella storia, significa generare confusione e alienazione, incapacità di definire soluzioni durature e non superficiali. 

Il Papa questo lo sa bene e si è premurato più volte di richiamare al ruolo del popolo italiano in Europa e nel mondo. Io sono vent’anni che seguo con assiduità la politica italiana e non ricordo nessuno che abbia più avuto la stoffa di ridisegnare la vocazione degli italiani nella storia. Un popolo senza vocazione annaspa e si attacca, di volta in volta, al bisogno più acuto che ha senza pensare che il problema, come nell’Io, è alla radice. Francesco, però, è andato oltre. E ha rimarcato l’altra grande parola che ha accompagnato la Chiesa dal dopo Concilio ad oggi: libertà religiosa. 

Essa, riferendola soprattutto ai fatti accaduti 1700 anni fa con l’Editto di Milano, non è soltanto una libertà di culto, ma è possibilità di partecipazione alla vita democratica, di espressione generosa di sé e del proprio dialogo col Mistero. Ciò che proviene dal rapporto con Dio, come coscienza di se stessi e come esaltazione della propria umanità, deve trovare libero spazio nella dialettica pubblica in nome di una laicità non esclusiva, tesa ad accantonare ogni fattore religioso, ma inclusiva, aperta cioè a valorizzare ogni apporto positivo che possa provenire dalla religione stessa. Per questo il Papa, quando parla di crisi, non parla di economia ma di legami famigliari deboli, non parla di borsa ma di povertà che toglie speranza e futuro ai giovani: perché egli desidera indicare nell’uomo la vera emergenza e nella libertà religiosa la condizione necessaria per ogni soluzione che non sia soltanto tecnica, ma integralmente umana alla crisi. 

Infine, quasi come corollario, al Papa non è sfuggito il momento politico particolare che vive il nostro paese, con la collaborazione di forze contrapposte in un unico governo e con una stagione ineludibile di riforme alle porte. Nessuno può sottrarsi all’impegno e al lavoro per il Bene Comune. Il pensiero del Pontefice scardina ogni partigianeria indicando una inevitabile opera di ciascuno in vista del Bene. Come nella vita, anche nello Storia, niente si realizza senza fatica e senza la volontà di fare questa fatica. 

È questo che noi italiani, che noi uomini, dobbiamo metterci in testa: senza un coinvolgimento reale dell’Io tutto rimane “parola”, ossia anticamera di un impegno falso e di un amore astratto. Don Giussani diceva: “Come è strano, difficile, faticoso, riprendere coscienza di se stessi. […] Ma occorre volerla questa fatica”. È questa la strada che Francesco indica a tutti gli italiani. Quella strada che Giorgio era proprio andato a chiedergli e che, al netto di ogni sterile dibattito, è proprio ciò di cui davvero abbiamo bisogno.