Giovedì scorso l’aula del Senato ha votato il ddl costituzionale che detta i tempi e i modi delle riforme per cambiare le istituzioni dello Stato. Il disegno di legge (approvato con 203 voti a favore, 54 contrari e 4 astenuti) ora passa alla Camera. Si prevede che possa ricevere il primo sì anche da Montecitorio entro l’estate, per poi riprendere l’iter previsto ed essere rivotato (lo richiede la doppia lettura) sia dalla Camera che dal Senato entro ottobre.
Il ddl istituisce un Comitato bicamerale dei “Quaranta”, costituito dai componenti delle commissioni istituzionali di Camera e Senato più i presidenti di commissione (in realtà, dunque, sarà fatto di 42 membri) e dovrà stendere le modifiche alla nostra Carta costituzionale, accogliendo e valutando le proposte formulate dalla commissione tecnica di 35 “saggi”, nominati dal presidente del Consiglio Enrico Letta e attualmente al lavoro sotto la guida del ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello.
I 35 esperti di diritto produrranno in fase istruttoria delle proposte su tre temi: legge elettorale, forma di governo, Titolo V della Costituzione. I risultati saranno consegnati al comitato dei Quaranta il quale, in sede redigente, formulerà le ipotesi di riforma che dovranno essere, successivamente, votate dal parlamento. Annamaria Poggi, docente di Diritto costituzionale nell’Università di Torino e membro dei 35, ci spiega come sta evolvendo la situazione.



Come si sta orientando il dibattito?

Anzitutto, prende spunto dalla consapevolezza del fatto che la crisi delle istituzioni è datata. Vorrei ricordare non solo che Amato, nel 1969, lanciò l’allarme affinché fosse varata una profonda riforma istituzionale, o che la prima Bicamerale, la cosiddetta commissione Bozzi, risale al 1983, ma che addirittura i padri costituenti erano consapevoli, già allora, che in futuro il sistema avrebbe avuto bisogno di una profonda revisione. Sapevano che il parlamentarismo avrebbe potuto sfociare in una sorta di assemblearismo tale da rendere ingovernabile il Paese. Scelsero egualmente, tuttavia, un modello fortemente parlamentarizzato perché era ancora fresca la ferita del fascismo; la Dc, d’altro canto, temeva che le elezioni sarebbero state vinte dai comunisti. Insomma, il dibattito non è dettato dalla contingenza.



Oggi a che punto siamo?

Il fatto che la legge elettorale sia stata modificata senza una riforma contestuale della forma di governo ha fatto sì che il dibattito presenti tre posizioni: alcuni propendono per il presidenzialismo, o per il semipresidenzialismo alla francese; altri, per il mantenimento del parlamentarismo, con una correzione che prevede il rafforzamento dei poteri del premier; altri ancora, per il mantenimento dello status quo.

Quale sarà l’opzione prevalente? 

Dubito che raggiungeremo una sintesi. Ci atterremo al compito istituzionale, elaborando proposte coerenti con ciascuna opzione. Presumibilmente, in ogni caso, l’ipotesi di far coincidere il presidente della Repubblica con il capo del governo difficilmente troverà mai grande consenso tra le forze politiche. E’ molto più probabile che, con l’obiettivo di far funzionare il sistema, si rafforzino i poteri del premier; attraverso, per esempio, l’istituto della sfiducia costruttiva, la possibilità di incidere sulla calendarizzazione dei lavori del Parlamento, o di chiedere al capo dello Stato lo scioglimento delle Camere. Difficilmente, inoltre, l’opinione pubblica italiana sarebbe disponibile a rinunciare ad un presidente di garanzia.



 

In tutto ciò, quanto influisce la presenza di Berlusconi?

Parecchio. Parte delle forze politiche è contraria al rafforzamento dei poteri del premier nella prospettiva – direi irrazionale – che Berlusconi torni al governo.

 

Su cosa, invece, convergerete?

Siamo pressoché tutti quanti d’accordo sul superamento del bicameralismo perfetto. La maggioranza di noi, inoltre, condivide l’idea di modificare il riparto della competenze tra Stato e Regioni. Un’altra questione particolarmente sentita è che alle debolezza del Parlamento e delle istituzioni si è sommata una debolezza ancora più drammatica, quella dei partiti.

 

Ci spieghi.

Per quarant’anni i partiti sono sempre stati gli stessi, il che ha storicamente dato luogo ad una serie di convenzioni che hanno garantito l’esistenza di coalizioni in grado di resistere e governare. Dal ’93 in poi è stato un continuo nascere e morire di nuove formazioni e questo ha reso impossibile la costruzioni di alleanze stabili. Tutto ciò in parte riguarda la stessa natura dei partiti, e solo dal loro interno potrà partire una riforma; in parte, tuttavia, può essere corretto dalla legge elettorale.

 

I partiti, com’è ormai noto, preferirebbero di gran lunga che si mantenesse quella attuale…

Ne siamo consapevoli. Sappiamo anche che i partiti, su questo, sono costretti ad un passo indietro. In caso contrario, per loro si tratterebbe di un suicidio. Lo scollamento tra la volontà popolare e l’esito del voto si è reso evidente come non mai nelle ultime elezioni, in cui Bersani, dopo aver vinto, seppure di poco, non è stato in grado nemmeno di andare in Parlamento a chiedere la fiducia.

 

(Paolo Nessi)